SOVRANITA’ (POTESTAS) E AUTORITA’

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Sottotitolo: “Manuale breve storico-giuridico sulla supremitas della potestas Populi ad uso di famiglie ed imprese, per la salvaguardia di diritti e libertà individuali e per non farsi dominare dal big business ad ogni giro di boa, attraverso autorità precostituite prive di legittimazione popolare.”

PROLOGO

Se non i cimiteri, che almeno le carceri siano zeppe di alchimisti, usurpatori e traditori del Popolo e della Patria!

LIBRO PRIMO – DALLE BANCHE DI STATO ALLO STATO DELLE BANCHE

Sulla base giuridica e dottrinale dell’autocrazia laica europea (banco-stato corporativo): art. 54-carta di Nizza e dottrina deabuso del diritto“, art. 352-TFUE e dottrina depoteri impliciti“.

1. Sovranità del popolo o sovranità dei “valori”?

1.1. Il concetto di Sovranità (potestas) – inteso come titolarità e fonte sovraordinata preesistente di legittimazione dell’esercizio di ogni potere costituito (auctoritas ed imperium) e che sembrava fissato in forma definitiva nel principio della Sovranità popolare (dalla Rivoluzione francese del 1789 prima e riaffermato dalla Costituzione italiana del 1948) – da soggettivo viene fatto nuovamente “oggetto” ideale nel tentativo di rimozione in senso radicale.

1.2. Pare che in sua vece si debba intendere una concezione relativistica della sovranità dei valori laici: astratti, indivisibili e universali (di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà), che sarebbero garanzia di “civiltà” di un’inesistente cittadinanza dell’Unione europea. Questi “valori”, solo immaginifici, nella quotidianità però annichilisco atti e fatti: diritti e libertà individuali grazie alle distorsioni conseguenti all’uso della dottrina sull’abuso del diritto (art. 54carta di Nizza).[1]

1.3. Questa “nuova” concezione della Sovranità (dei “valori”) sarebbe confacente all’avvento degli organismi sovranazionali (ONU, FMI) e servirebbe da completamento all’autocrazia dell’Unione europea (UE, BCE) per consolidare la tendenza all’accentramento sovranazionale del potere politico e militare. Sembra inevitabile che il nuovo ordine mondiale debba reggersi sul vecchio espediente auto-poietico classico dell’autocrazia: la cura et tutela… di “valori” oggettivati che risiedono nella comunità internazionale solo idealmente e che sono opportunamente indottrinati e propagandati in slogan: “Europa unita per il progresso economico e sociale“, “moneta unica che avvantaggia i cittadini“, “eliminazione delle frontiere e libera circolazione delle persone e delle merci“, “diritti umani e libertà fondamentali“, “maggiore autonomia europea“, ecc. Nella realtà fattuale il “trattato” è più un accordo commerciale ed interbancario tra differenti Stati che un accordo politico.[1a]

1.4. Il popolo invece, quello vero e reale, pare debba rassegnarsi ad una professione di fede (laica) che lentamente prosciuga diritti e libertà individuali lasciando solo l’esercizio dei doveri, costituzionalmente garantiti dai “valori” di una cittadinanza fasulla, di un improbabile fiscal-military State sovranazionale retto dal principio minoritario (elitismo).

1.5. Di fatto, il concetto di sovranità “dei valori” è più concretamente attinente agli oggetti, che non alle persone (virtù). Già Gliulio Cesare, ospite a Milano di Valerio Leonte, ammoniva: “de gustibus non disputandum est“, e non si riferiva solo al piatto di asparagi conditi con il burro, piuttosto che con l’olio d’oliva.[1aa]

2. Dottrina dei poteri impliciti contro principio dell’attribuzione specifica limitata.

2.1. La “dottrina dei poteri impliciti” contenuta nel trattato di Lisbona (art. 352-TFUE), nella pratica non è altro che un espediente auto-referente di attribuzione della competenza sulla competenza che va ad alimentare autoritarismo e corporativismo della tecnocrazia europea. La Corte costituzionale tedesca ha rilevato infatti che l’esercizio dell’auctoritas sovranazionale (c.d. competenza) si attua automaticamente su basi illegittime in spregio al sacrosanto “principio dell’attribuzione specifica limitata” (cfr. Bundesverfassungsgericht, sentenza del 30 giugno 2009, par. 325-328).

2.2. Sembra incredibile che ciò possa ricapitare in Europa, nonostante il dogma della sovranità dello Stato abbia giá prodotto le esperienze nefaste dei fascismi e totalitarismi nel XX secolo. Adolf Hitler sulla supremitas del “valore” della purezza della razza pianificò lo sterminio. Benito Mussolini sulla supremitas del “valore” del corporativismo costruì lo Stato fascista.

2.3. Oggi, propinata un’inverosimile cessione, e per di più irreversibile, della Sovranità monetaria, creati i miti di indipendenza e autonomia delle autorità (authorities) e di supremitas dei “valori” sbandierati per una cittadinanza europea fasulla (cfr. Bundesverfassungsgericht, sentenza del 30 giugno 2009, par. 346-350), si implementano politiche sociali ed economico-finanziarie corporative (le c.d. riforme) che umiliano i popoli ed impoveriscono i lavoratori, per tutelare privilegi economici e nascondere azzardi e debiti fatti da un’intera classe dirigente che mira solo a conservarsi il potere, facendo largo uso della menzogna (abusi, prevaricazioni, inganni).

3. Il colpo di Stato di banche e governi.

3.1. Occorre essere consapevoli che la sovranità del popolo è oggi nuovamente svilita o negata di fronte agli interessi particolari e sovranazionali dei potentati economico-finanziari privati: multinazionali e grandi banche universali. Le banche centrali propagandano per mere politiche monetarie, decisioni di politica economica re-distributive dei redditi e della ricchezza, prese senza rappresentanza privilegiando rendita di pochi a carico del lavoro di molti.

3.2. Fissato da una parte il dogma dell’autonomia e dell’indipendenza per la cura et tutela della stabilità monetaria e finanziaria, e dall’altra, nell’intento di auto-attribuirsi competenza sulla competenza per la cura et tutela di “valori” mistici di una comunità ideale e priva di Sovranità: a-democratici direttorii di tecnocrati, nominati attraverso meccanismi spesso oscuri, regolamentano senza controllo democratico secondo la propria utilità.

3.3. Di fatto, si adoperano per conservarsi il potere per perpetrare privilegi che garantiscono extra-profitti e interessi particolari elitari a spese della collettività (Cfr. Bank Competition and Financial Stability: A General Equilibrium Exposition, Gianni De Nicolò, Marcella Lucchetta, WP/11/295).

4. Il corto circuito della democrazia.

4.1. La sovranità cosmopolitica o la sovranità dei “valori” essenziali della comunità mondiale, che dovrebbe essere posta a fondamento del Superstato o Stato mondiale (il c.d. Nuovo ordine mondiale, una sorta di Leviatano universale) pare perdere di vista un elemento inconciliabile con la sovranità stessa: l’autoreferenza. Rimossa la Sovranità (potestas) del popolo, l’auctoritas si consolida con lo Stato, che da res publica diviene dominium del “principe”: il cui potere di disporre nello dello Stato non necessita più di azioni esterne di legittimazione (voto diretto), ma si auto-legittima.

4.2. La sovranità dei “valori” trascende il popolo, non è più viva e attuale, ma è icona ideale, immagine oggettivata che coincide con lo Stato stesso. Il popolo privato della sovranità soggettiva perde la garanzia dei diritti individuali, scavalcati appunto dalla garanzia di “valori” immaginifici oggettivati (idoli), che risiedono nella comunità solo idealmente.

4.3. Alla fine del circuito si viene così a riproporre la medesima ricetta auto-referente della sovranità dello Stato fascista, ma questa volta in chiave sovranazionale. Il posto delle corporazioni è occupato dalle comunità-nazioni. Anziché garantire i diritti individuali, il Superstato è garante degli standards: i “valori” irrinunciabili e vincolanti della massa (per lo sviluppo sostenibile, per la riservatezza o privacy, per la parità di genere, per la libertà di circolazione e di stabilimento, ecc.), immancabilmente disattesi dal Superstato ma che ogni individuo (o quasi) è tenuto a rispettare.

4.4. Ai tecnocrati ovviamente il compito istituzionale di definire, di volta in volta, gli standards relativamente corrispondenti ai fatti, che ben indottrinati dai think tank saranno poi efficacemente propagandati dai media perché tutti possano apprenderli. Nel Superstato tecnocratico l’elezione diretta dei rappresentanti è una pratica da rottamare, perché sovrani sono i “valori” che votano attraverso l’audience, mica il popolo che non si identifica nemmeno più con il corpo elettorale.

4.5. La sovranità dei valori si basa già su due mitici standards della comunità internazionale, a cui nessun individuo deve rinunziare: l’utopica pace mondiale da raggiungere con una guerra (preventiva? pacificatrice? del terrore?) ai cattivi di turno e la fantomatica stabilità monetaria e finanziaria per contrastare la crisi del momento.

5. Corporativismo giuridico e a-democrazia.

5.1. E’ ormai fin troppo evidente che il Popolo deve risorgere ed organizzarsi per riaffermare effettivamente il principio della Sovranità popolare, come norma preesistente e sovraordinata da cui trae origine l’ordinamento costituzionale, per rigettare le dottrine relativistiche della sovranità dei “valori” , di stampo marcatamente corporativo (o fascista), che procurano la diretta applicazione di “regole” emanate da direttorii, c.d. self-executing, oppure, che impongono all’Autorità giudiziaria di applicare – al posto delle leggi del Parlamento – mere decisioni di tecnocrati privi di autorità sovrana e per di più affetti da deficit democratico.

5.2. Le costituzioni democratiche degli Stati nazionali se non sono protette dal principio della Sovranità popolare restano indifese dagli attacchi di questi a-democratici regolatori sovranazionali che, come fossero térmiti, le infestano attraverso dottrine autopietiche del potere, svuotandole dall’interno.[1b]

6. La supremitas fasulla.

6.1. Il risultato della regolamentazione sovranazionale sciolta dal (soluta ab) vaglio democratico non può che essere l’incremento di diseguaglianze e conflitti.[1c] Occorre infatti essere consapevoli che gli organismi sovranazionali privi di rappresentanza democratica sono dominati essi stessi da interessi particolari privati, da cui sono agevolmente catturati [1bis].

6.2. Ciò rende fin troppo evidente agli occhi di tutti la loro palese inidoneità al perseguimento del bene comune, per insistere nel tollerarli sovraordinati! [1bis2]

LIBRO SECONDO – POTESTAS ET AUCTORITAS (IMPERIUM)

Sulla Sovranità popolare quale diritto preesistente di ogni popolo e principio co-essenziale al concetto stesso di Repubblica e di Stato di diritto democratico.

1. Concetto di potere nel pensiero greco antico.

1.1. Il concetto di potere distinto tra Sovranità (potestas) ed autorità (auctoritas ed imperium) non è presente nel pensiero greco.[1ter] Per i greci antichi lo stato è secondo natura, il potere secondo natura appartiene quindi a chi è più idoneo a comandare.

1.2. Alla domanda a chi appartiene il potere nella Grecia antica viene risposto che il potere appartiene naturalmente (razionalmente) al migliore. Trasimaco afferma, in base all’ideale pessimista della Giustizia, che il potere spetta naturalmente al più forte. Socrate invece, per la sua visione ottimista, afferma che il potere spetta naturalmente al più sapiente.[1ter2] L’identità tra governanti e sapienti doveva portare al governo dei filosofi (Platone, Repubblica, 473d).

1.3. Aristotele trasse la conclusione e giunse ad affermare che il potere secondo natura appartiene alle leggi secondo natura, ossia razionali (fondate sulla ragione); ai magistrati (governanti, giudici e comandanti) spetta soltanto il compito di adeguarle alla varietà del reale.[2]

2. Potestas e auctoritas nel costume romano antico.

2.1. Gli antichi romani erano troppo realisti per attendere un governo dei filosofi e troppo dinamici per proclamare il dominio statico delle leggi secondo natura, sicché introdussero il concetto della collettività (tribus, gentes, familiae).

2.2. Nella gerarchia di valori della civiltà romana la preminenza è riservata alle virtù politiche, non esclusa l’etica e la religione; il motivo dominante è quello dei rapporti fra gli uomini (vires), lo sforzo costante è diretto alla loro regolazione ed organizzazione per un’elevazione comune. Nello sviluppo di precetti religiosi, norme etiche e principi giuridici, si giunse così alla definizione di Cicerone per cui la Sovranità (potestas) spetta al popolo mentre l’autorità al Senato.[3]

2.3. Lo stesso Ottaviano Augusto che pure aveva instaurato il principato dal 27 a.c., non negò al Senato (assemblea dei patres) la potestas populi Romani; difatti dopo la restaurazione della legalità, afferma nelle Res gestae di non aver mai prevalso per potestas (essendo acclamato imperatore dal Senato), ma di essere stato superiore a tutti gli altri colleghi magistrati per auctoritas.[4]

3. Si afferma l’autocrazia del princeps.

3.1. Nella cultura romana si tramandò per secoli con la Lex regia il principio giuridico arcaico esposto da Cicerone: la sovranità risiede nel popolo, l’autorità nello Stato, e che durante il principato sarà rappresentato nei trenta littori (de lege agr. 2, 12, 31), anche se già all’inizio del III secolo, al tempo di Ulpiano (170 – 228 d.c.)[5], non aveva più alcun riscontro reale, ma restò un tardo ricordo ideologico-legittimante senza efficacia pratica. Era un espediente utile per rafforzare l’autocrazia dell’imperatore.

3.2. Fu infatti nel 69 d.c. che grazie alla lex de imperio Vespasiani venne concesso al princeps il diritto discrezionale relativamente a tutti i problemi religiosi ed umani, pubblici e privati: ius arbitriumque omnium rerum (Svetonio, Cal. 14, 1) o omnium rerum potestas (Plinio, Paneg. 56, 3).[6]

3.3. E’ verosimile che Ulpiano (D.1,4,1 pr.), Gaio (Inst. 1,2,6) e Giustiniano (C.1,17,1,7) nei loro testi si riferissero alla lex di Vespasiano, citandola come lege regia, e non alla fonte del principio giuridico espresso da Cicerone, di cui alla lex curiata (de imperio)[6bis] che risalente da epoca arcaica fu vigente sino al 450 a.c. circa, anno in cui fu scritta anche la prima codificazione nota come legge delle XII Tavole. Gradualmente, in seguito alla riforma del censo (da curiato a centuriato) del 494 a.c., la plebe fu ammessa all’esercito, alla distribuzione dell’ager publicus, al connubium ed alle magistrature (lex sacrata), sicché tale principio giuridico si tramandò e conservò durante il periodo repubblicano nella lex centuriata de potestate censoria.[7]

3.4. L’investitura dell’autoritas (imperium) (Liv. IX, 38, 15-39,1) si sostanziava, non di un vero e proprio potere elettorale del popolo, ma di un atto cerimoniale di assenso chiesto, dopo ever preso gli auspici, dalla carica pubblica stessa d’innanzi al popolo romano riunito (prima in curiae e poi in centuriae), che acclamava il neo-favorito dal suffragium delle singole tribù legittimandolo all’esercizio dell’autorità (civile e militare) e nel contempo si obbligava verso di lui all’obbedienza.[8]
3.5. Questo cerimoniale, poi svolto dal senato, cessò con Vespasiano che fu acclamato imperatore dalle militie in Egitto.[9]

4. L’imperatore torna legibus alligatum

4.1. L’11 giugno del 429, a Ravenna l’imperatore romano d’occidente Valentiniano III (419 – 455) pose fine alla solutio del princeps con la Costituzione Digna Vox (C. I, 14, 4).
4.2. L’esenzione all’imperatore dall’osservanza delle leggi, che potessero limitare la sua attività, era iniziata con la solutio legibus (C. 6.23.3) ottenuta da Ottaviano Augusto nel 24 a.c. [9bis]

5. Si riafferma il dualismo del potere.

5.1. Nell’alto medioevo dopo la caduta dell’impero romano del 476 d.c., nella grande rissa che si scatenò in Europa, tutti pretesero di possedere ed esercitare legalmente l’autorità.[10]
5.2. Sul finire del V secolo, Papa Gelasio I ridefinì il dualismo nel medioevo cristiano ponendo l’auctoritas in capo al pontefice e la potestas in capo all’imperatore.[11]

6. L’auctoritas deriva direttamente da Dio.

6.1. Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano affermerà con la costituzione Deo auctore di avere ricevuto, per derivazione diretta e quindi senza mediazione popolare, il potere imperiale da Dio.[12], [13]
6.2. Il vincolo di obbedienza dei sudditi verso un sovrano che non era più acclamato dal popolo, fu derivato dal giuramento di fidelitas.[14]

7. La Repubblica di Venezia.

7.1. Nella regione delle lagune, che aveva l’antico nome romano di provincia Venetia, ai tribuni marittimi si sovrappose un dux, che nominato dapprima dall’autorità imperiale, divenne poi elettivo con il titolo di “Doge” al tempo dell’insurrezione dell’Italia bizantina contro i decreti iconoclastici che proibivano il culto delle immagini, promulgati nel 726 e nel 730 dall’imperatore d’Oriente Leone III Isaurico.[14bis]
7.2. Fu questa l’origine della Serenissima Repubblica di Venezia (697 – 1797) che nel corso di undici secoli ebbe 120 dogi, il primo Paolo Lucio Anafesto e l’ultimo Ludovico Manin.

8. La concezione patrimonialistica (privatistica) del potere.

8.1. Il 25 dicembre dell’anno 800, Carlo Magno veniva incoronato imperatore del Sacro Romano Impero da papa Leone III. Quasi a dare completezza alla cerimonia e titolo di legittimità al nuovo ordinamento, il popolo romano (erede dell’antica Roma) acclamò e acconsentì, invocando per tre volte: “Carlo piissimo, augusto, coronato da Dio, imperatore dei romani, grande e portatore di pace, vita e vittoria“.

8.2. Da una parte, con l’atto dell’acclamazione e dell’approvazione popolare, il pontefice intendeva riportare nel nuovo ordinamento la tradizione e la dimensione pubblicistica dell’antico Impero romano. Dall’altra, Carlo Magno che pur partecipando attivamente alla renovatio Imperii, in quanto re dei Franchi, non aveva né l’idea dell’imperium né l’idea del dominium, né tanto meno nella sua visione privatistica del potere poteva distinguere i poli di riferimento dell’ordinamento della res publica ed i poli di riferimento delle situazioni giuridiche reali della res privata.[15]

8.3. Nell’842 i figli dell’imperatore Ludovico il Pio, Carlo e Ludovico, strinsero un patto d’alleanza contro il fratello Lotario giurando a Strasburgo in lingua francese ed in lingua germanica. L’anno seguente con il trattato di Verdun di fatto si spartirono i territori ereditati dal padre e sorsero così i tre regni di Lotario I, di Carlo il Calvo e di Ludovico II il Germanico.

9. La lotta per la supremitas.

9.1. Nel 962 si costituì il primo Reich (962 – 1806) con Ottone I di Sassonia, che sancì con il Privilegium Othonis il primato del potere imperiale sul pontefice. Nel 1075, Papa Gregorio VII negava con il Dictatus papae il primato del regnante sul pontefice e si iniziava così fra le due autorità la lotta per ottenere la plenitudo potestatis ossia la supremitas

9.2. Se la Chiesa vantava la propria supremitas sullo Stato [16], all’autorità dell’impero si sottraevano i re proclamandosi imperator in regno suo [17], mentre i signori feudali si facevano re nei propri castelli.[18] Ognuna di queste autorità pretese di essere superana o soberana o sovrana (dal latino superanus o surseranus; in francese suzerain, souverain; in spagnolo soberano).

9.3. Nel XII secolo Federico Barbarossa preferì, per le proprie tendenze autocratiche, non utilizzare il precetto della Lex regia, ritenendo per la legittimazione del suo regno che il diritto divino, quello ereditario ed il consenso dei principi tedeschi fossero sufficienti a sostenere l’origine e la trasmissione del potere imperiale. Nella mentalità del Barbarossa la legittimazione del potere discendente direttamente da Dio escluse la possibilità dell’investitura (mediazione) popolare.[19]

9.4. Nel 1202, Papa Innocenzo III con il decretale Venerabilem riconobbe ai principi tedeschi il diritto di eleggere il re, sicché il prescelto dai principi era già “in imperatorem electus“. Tuttavia fu tenuta distinta l’elezione dei principi dall’incoronazione imperiale. Il papa manteneva la sua facoltà di verificare la dignità e l’idoneità del candidato prima di incoronarlo (legittimarlo) imperatore.[19bis]

11. Si riafferma l’origine popolare della potestas.

11.1. Nel XIII secolo, Federico II (stupor mundis) mutò radicalmente la situazione ed il richiamo esplicito alla Lex regia fu posto in funzione dell’assolutismo contro le pretese della curia romana. L’intento fu quello di porre radicalmente – nel senso che secondo Federico II la cessione della potestas da parte del popolo romano all’imperatore fu definitiva ed irreversibile – l’autorità imperiale quale unica fonte di legittimazione dell’ordinamento giuridico.[20] Azzone negò che la potestas si fosse trasferita al principe in via definitiva.[21]

11.2. I sostenitori del papa videro inizialmente nella origine umana della legittimazione imperiale una prova dell’inferiorità dell’autorità imperiale rispetto a quella della Chiesa.[22] Ma ben presto i canonisti si accorsero che l’inferiorità si trasformava in indipendenza e si giunse ad accentrare nella Chiesa ogni potere di investitura.[23], [24], [25]

12. La fine dell’autorità temporale della Chiesa

12.1. Il processo di accentramento del potere nella Chiesa giunse alla sua massima espressione ed al contempo alla sua definitiva sconfitta con Bonifacio VIII. Assiso sul trono, con una corona in capo ed una spada al fianco: “Io, Io sono Cesare, Io imperatore“, egli fieramente affermava.[26] Nel 1307, pochi anni dopo la sua morte, Filippo IV detto il Bello re di Francia, già sostenuto dagli Stati Generali nell’affermare l’assolutismo regio e la supremitas sul papato, fece arrestare gli impopolari banchieri dell’Ordine dei Milites Templi Salomonis (i Cavalieri Templari) ivi residenti, ponendo fine al loro monopolio nel sistema creditizio, confiscandone i beni e le enormi ricchezze con le accuse di eresia o apostasia, di sodomia e di negromanzia. L’Ordine fu ufficialmente soppresso con la bolla Vox in eccelso del 1312. L’ultimo gran maestro venne arso nel 1314 davanti alla cattedrale di Parigi.[27]

12.2. Con l’affermarsi del Comune come forma di governo locale, Marsilio da Padova giunse alla prima teorizzazione dello Stato moderno elaborando il concetto della sovranità del popolo (universitas civium).[28] Nel corso del XIV secolo Bartolo da Sassoferrato elaborò il concetto della civitas sibi princeps.[29] Bartolo interpretò la trasformazione dei comuni in signorie come il dilagare della tirannide in Italia.[30]

12.3. Nel XIV e XV secolo, il principio della Sovranità del popolo contenuto nella Lex regia divenne quindi per i sostenitori dell’impero il fondamento a favore dell’autonomia originaria dello Stato rispetto alla Chiesa.[31] Il polemista germanico Ludovico il Bavaro dichiarava nel 1338: Declaramus quod dignitas et potestas est immediate a Deo solo. Mentre i legisti italiani difendevano nell’imperatore l’ultimo residuo della tradizione romana e del suo diritto come potenza della ratio, i polemisti germanici volevano salvare l’imperatore piuttosto che il diritto naturale che esso rappresentava.

12.4. Nel 1356, con l’emanazione della Bolla D’Oro, Carlo IV regolò il diritto di elezione dell’imperatore dei sette principi tedeschi e la loro posizione istituzionale. Nella pratica col sistema dei principi elettori l’azione politica germanica giunse alla definitiva germanizzazione dell’impero, sottraendo al popolo romano anche l’esercizio formale della potestas. Teoricamente, il principio elettivo a suffragio ridotto fece sempre dell’imperatore il rappresentante del popolo, difatti i principi elettori medesimi, secondo la concezione patrimonialistica del potere, non erano altro che i successori (gli eredi) del popolo romano.[32] Successivamente nel 1512 l’impero cambiò anche il nome in Sacro Romano Impero della nazione germanica. I ghibellini germanici tuttavia non riuscirono ad opporre alla teocrazia papale una teocrazia imperiale e laica.

13. Si definiscono i primi caratteri della Sovranità (potestas).

13.1. Nella contesa per ottenere la supremitas si vennero a definire anche i caratteri della Sovranità.

13.2. Prima che Lorenzo Valla dimostrasse nel 1440 il falso storico della “donazione di Costantino”, i guelfi con Dante Alighieri, nello sforzo di dimostrarne l’illegittimità, erano già riusciti a sancire il carattere inalienabile della Sovranità (1312-1313).[33]

14. Il “nuovo” mondo.

14.1. Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo approda nelle Americhe. La scoperta del mundus novus segna la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna.

14.2. Il 7 giugno 1494, Giovanni II Re del Portogallo ed i regnanti di Spagna, Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia si spartirono con il Trattato di Tordesillas lungo la “riga” o “confine” nord-sud, 370 leghe ad ovest delle Isole di Capo Verde, il dominio sui mari e sulle terre scoperte e da scoprire, al di fuori dell’Europa. Il duopolio esclusivo – già sancito dal Papa Alessandro VI con la bolla Inter coetera del 4 maggio 1493, che assegnava le terre ad est del meridiano Raya al regno del Portogallo, quelle ad ovest al regno di Spagna – fu così definito nel 1506 dal Papa Giulio II con la bolla Ea quae pro bono pacis.

14.3. Nel XVI secolo, Carlo V d’Asburgo – insignito della dignità imperiale con i favori del mercante-banchiere Jacob II Fugger detto il Ricco [34] – interruppe con l’abdicazione del 1555 l’ultimo tentativo di creare un’egemonia europea sovranazionale. Il Sacro Romano Impero restò così una struttura confederale di principati e città tedeschi e nel 1648 con la pace di Westfalia divenne solo uno Stato tra molti altri.

15. Lo Stato assoluto e la carta-moneta.

15.1. Nel XVII secolo l’assolutismo proclamò la Sovranità del capo dello Stato veramente suprema, ossia sciolta dalle leggi.[35] L’ideologismo monarchico con Giacomo I d’Inghilterra proclamava: “Un vero re può conformarsi alla legge, ma nulla ve lo obbliga.” L’origine divina del potere legislativo, ossia il potere divino dei re, troverà la sua compiuta espressione per opera della monarchia ereditaria. Robert Filmer sotto gli Stuard in Inghilterra chiamerà il suo re: “successore di Adamo, il Patriarca“. Jacques Bénigne Bossuet teorizzo l’assolutismo francese sulla base della Sacra Scrittura.

15.2. Nel XVII secolo ebbe origine anche la forma più evoluta di carta moneta, emessa negli anni 1661-1664 dalla banca privata Palmstruch di Stoccolma. Johan Palmstruch ottenne dal Re di Svezia Carlo X Gustavo, con due carte del 30 novembre 1656, il privilegio per creare un banco di cambio ed uno prestito. L’innovazione fu combinare questi due dipartimenti (cambio e prestito) nello Stockholms Banko, per utilizzare somme depositate dai correntisti (anziché proprie) per finanziare prestiti, salvo il problema della correlazione temporale, ossia che i depositi erano solitamente a breve termine, mentre i prestiti a lungo termine.[35a] Il problema fu risolto da Palmstruch nel 1661 che iniziò a stampare carta moneta, ossia, banco-note: note di credito in tagli circolari, che erano liberamente trasferibili (al portatore) e sostenute dalla promessa di riscatto in monete metalliche. La stampa illimitata di carta moneta funzionale a fornire prestiti toccò l’apice nel 1663, e né causò una brusca caduta del valore. La banca privata ovviamente fallì per l’incapacità di fare fronte alle richieste di riscatto, Palmstruch fu imprigionato e la liquidazione fu completata nel 1667. Il 17 settembre 1668, il privilegium di Palmstruch fù trasferito alla Banca Riksens gestita dal Parlamento svedese, che diventò così la prima banca centrale (o fabbrica del debito).

15.3. L’idea di Palmstruch venne ripresa qualche anno più tardi dal Re d’Inghilterra, Guglielmo III d’Orange-Nassau che facendosi promotore della c.d. “rivoluzione finanziaria”, costituì nel 1694 la Bank of England giusto al fine di finanziare i debiti di guerra con la garanzia del Parlamento.[35bis] La Bank of Scotland venne costituita con un atto del Parlamento scozzese del 17 luglio 1695. Sorse così il fiscal-military State, ossia uno Stato in cui un importante apparato militare e pubblico si doveva reggere su efficienti risorse finanziarie, reperite soprattutto attraverso la conversione in carta moneta dei titoli del debito pubblico (monetizzazione del debito).[35ter]

16. La Sovranità del popolo

16.1. Nel XVIII secolo Jean-Jacques Rousseau ritrasferì nel popolo la Sovranità che i regnanti assoluti attribuivano a se stessi. Il Primo Impero Francese di Napoleone Buonaparte – auto incoronatosi imperatore dei francesi alla presenza del papa nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi – durò un decennio dal 1804 al 1814, ma la codificazione napoleonica riuscì a compiere gli ideali della Rivoluzione francese, portando anche in Europa l’unificazione dei soggetti di diritto ed all’affermazione del “principio di uguaglianza” formale, per cui “la legge è uguale per tutti“, che era contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza (1776) delle colonie americane dalla Corona inglese.

16.2. Nel 1793 la Sovranità del popolo fu declarata una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile.”[37]

16.3. Verso la fine del XIX secolo, Emile Cossé illustrando i principi della democrazia scriverà: “Il sovrano è legato a se con la sua coscienza. Negli Stati monarchici assoluti il sovrano è ben in queste condizioni. In democrazia il sovrano è formato dall’associazione di tutti i cittadini… Questo sovrano democratico ha tutti i diritti che implicano la Sovranità.[36]

16.4. Che il popolo sia la fonte originaria di ogni potere è quindi affermazione ricorrente nella storia. Tale affermazione trova la sua giustificazione razionale nel fatto che la dimensione politico-sociale attiene all’uomo per natura.[38]

17. La Sovranità della nazione.

17.1. Nella pratica dell’ultimo Ottocento e dei primi del Novecento, lo Stato liberale democratico con il riscoperto principio della Sovranità popolare ed il suffragio universale appena conquistato, restò incompiuto ed entrò subito in crisi. La Rivoluzione francese si lasciò alle spalle il monarca sovrano, ma giunse solo alla soluzione intermedia tra la Sovranità del re e la Sovranità del popolo. La dottrina della Sovranità assoluta di Jean Bodin e Thomas Hobbes e l’istanza democratica conseguente all’abbattimento dell’ancient régime trovò così un compromesso nella Sovranità della nazione, intesa come universalità ideale che trascende il popolo, ma che in definitiva equivale ancora allo Stato che si identifica con se stesso.[39]

17.2. Le assemblee rappresentative poste in prevalenza assoluta capitoleranno poco più tardi a causa della corruzione elettorale e del particolarismo dei gruppi di interesse, lasciando un vuoto che sarà occupato dalle dittature.[40] Joseph de Maistre (1753 – 1821) così ebbe a sintetizzare la sua critica alla Rivoluzione francese: “La démocratie c’est une association d’hommes sans souveraineté.” Difatti, la Sovranità tolta con la ghigliottina dal capo del monarca non cadde realmente nelle mani del popolo, ma si fermò in quelle dell’aristocrazia borghese che solo idealmente si professò di rappresentarlo.

18. La Sovranità monetaria e la “fabbrica del debito”.

18.1. In quegli stessi anni, dalla seconda metà dell’Ottocento, lo Stato nazione dispose per la sostituzione del “danaro contante“: monete in metallo prezioso coniate dalla zecca di Stato, con la “carta moneta o biglietti di banca“: banco-note o note di credito stampate dalle banche su carta in tagli circolari, trasferibili al portatore e riportanti la promessa di riscatto in monete metalliche. In Italia, con il Regio decreto n. 2873 del 1 maggio 1866 (G.U. n. 121/1866) fu concesso dal Re Vittorio Emanuele II, alla sola banca nazionale (a fronte di un prestito al Tesoro di 250 milioni di Lire), il privilegio del “corso forzoso“. La solutio legibus così recitava: la Banca nazionale è sciolta dall’obbligo del pagamento in “danaro contante ed a vista de’ suoi biglietti. S’introduceva così, anche in Italia, la non convertibilità della carta-moneta in “danaro contante” (monete metalliche). Con lo stesso decreto del Re fu inoltre concesso, per tutte le banche, il privilegio del “corso legale“, cioè l’obbligo per tutti i sudditi ed amministrazioni del Regno di accettare in pagamento (estinzione dell’obbligazione) i biglietti di banca. [40bis]

18.2. Il corso forzoso ridusse ai minimi termini la verifica del pubblico (dei sudditi) sulla solvibilità delle banche; verifica che si attuava per natura delle cose con la richiesta di baratto dei biglietti di banca in monete metalliche. Il corso forzoso accentuò quindi le responsabilità di controllo dello Stato sulle banche e tale controllo si rendeva inoltre necessario per scongiurare i rischi di crisi per le insolvenze e di spirali inflazionistiche per l’eccessiva stampa di carta-moneta. Questi eventi ciclici generavano difatti tensioni istituzionali e laceravano il tessuto sociale. Il Senatore Maurogonato (Camera dei deputati, 2-3/8/1868) sosteneva che per motivi costituzionali (sovranità monetaria) “in tutti i paesi liberi l’argomento gravissimo delle banche o dell’emissione della carta-moneta è sempre stato di competenza del Parlamento” e aggiungeva inoltre che nessun Parlamento dovrebbe rinunziare a questo prezioso diritto (costituzionale) di vigilanza e controllo (democratico) sulle banche. [40ter]

18.3. Lo spoglio dello Stato di ogni forma di controllo democratico sulle questioni monetarie si è consumato poco a poco. L’ultimo atto recente di spoliazione si riscontra nell’introduzione della limitazione all’uso delle banconote per pagamenti in contanti (Cfr. per l’Italia v. Legge 197/1991, limite oggi ridotto a € 999,99). Nel caso di specie, la menomazione delle libertà e dei diritti individuali dei cittadini è promossa dall’autocrazia sovranazionale europea per la cura et tutela del “valore” antiriciclaggio, motivato poi dalla propaganda domestica anche dall’improbabile contrasto dell’evasione fiscale. Limitare l’utilizzo della carta-moneta, come mezzo legale di estinzione dalle obbligazioni, è palesemente illiberale e profondamente lesivo dei diritti individuali. La regola però tutela la corporazione bancaria e ciò pare giustificare, in sé e per sé, la lesione delle libertà e diritti individuali, al cospetto dell’autocrazia europea. Per tale via quindi, di fatto, si è esteso surrettiziamente il corso forzoso della carta-moneta anche alla “moneta scritturale” o “moneta bancaria” o “moneta a basso potenziale”. Questa ulteriore solutio legibus (occulta) implica che la banca è “sciolta” dall’obbligo di fare fronte alle proprie obbligazioni con attività reali o patrimonio tangibile (in labore fructus).

18.4. La “moneta scritturale” e la carta-moneta in concreto non rappresentano altro che debiti (privati e pubblici): attivi di bilancio, ma solo per la banca! Occorre essere consapevoli che ogni banca, anche la più piccola, può creare dal nulla “moneta bancaria” pigiando semplicemente un tasto dell’elaboratore elettronico, senza che questo processo di creazione del debito privato sia soggetto ad alcun controllo democratico! La vigilanza sulle banche è solo corporativa, e, inspiegabilmente, si tollera l’autoreferenza della banca centrale, nonostante la creazione del debito abbia significativa rilevanza per il bene comune e per le future generazioni, visto che fin dalle origini (Cfr. 15.2), l’insolvenza della banca necessita del ripianamento del debito privato (non onorato) per mano pubblica. Di fatto, per rimborsare gli ignari depositanti il Governo accede al debito pubblico e quindi alla fiscalità generale. Il meccanismo di ripianamento un tempo prevedeva, fino a pochi anni or sono, il “prestito di ultima istanza“. Questo strumento di politica monetaria è stato recentemente sostituito con la bad bank, una sorta di discarica abusiva per smaltire le scorie del debito privato non onorato (“sofferenze”). [40ter2]

18.5. Il solo limite che fu posto dallo Stato nazione, alle scorribande economico-finanziarie della “moderna” banca-commerciale nata dall’idea di Palmstruch, consistette nell’obbligo di legge di immobilizzare in “massa metallica” una frazione della “massa circolante” creata, fissato nel coefficiente di “riserva obbligatoria o frazionaria“. Il Regio decreto del 1866 (art. 5) fissò il coefficiente di metallo da immobilizzare in 2/3 del circolante; sicché il sistema bancario poteva creare dal nulla e mettere a reddito “solo” fino a 1,49 unità di conto (Lira), per ogni moneta metallica da 1 unità di conto (Lira) depositata nei suoi forzieri! La Banca nazionale in “virtù” del coefficiente di 1/3, fissato della legge piemontese del 1850, poteva mettere a reddito fino a 3,03 unità di conto, e questo spiega il suo predominio nel mercato. Dal 1866 la tecnologia di intermediazione non è mutata, salvo il progresso tecnico che ha portato alla scomparsa del metallo prezioso, dei forzieri e la riduzione del coefficiente, sino quasi a scomparire. Attualmente (precisamente fino al 17.01.2012), la banca deve immobilizzare 1/50 [coefficiente 0,02 oppure 2%], per ogni euro di “moneta bancaria” creata dal nulla. A decorrere dal 18.1.2012 è sufficiente immobilizzare 1/100, per ogni euro creato, in “virtù” del “coefficiente di riserva obbligatoria” pari a 0,01 o 1% (cfr. Reg. (CE) 1745/2003, art. 4). Sicché, ai nostri giorni, grazie al “moltiplicatore monetario”, per ogni moneta dal valore di 1 euro depositata su un conto corrente bancario (“moneta ad alto potenziale”), il sistema bancario nel suo complesso può creare fino a 100 euro di “moneta scritturale” da mettere a reddito, a tassi di interesse di mercato (in pecunia fructus). Sino al 17 gennaio 2012 il “potere creativo” del sistema era limitato nella metà: il sistema bancario poteva creare circolante fino a 50 volte il valore dei depositi. [40quater]

18.6. E’ affidandosi alla scienza ermetica della “fabbrica del debito”, detentrice dell’arte di trasmutare “cento” biglietti di carta in una “una” moneta aurea, che lo Stato nazione si è preclusa, poco a poco, ogni forma di controllo liberale e democratico sull’emissione e gestione della moneta, nelle sue varie forme (metallica, cartacea e digitale). La Sovranità monetaria si è consolidata (privatizzata) nella corporazione bancaria, al cui apice è posta l’autorità corporativa “banca centrale” che funge da direttorio della corporazione. E’ affidandosi alla “fabbrica del debito” che le grandi conquiste di libertà, uguaglianza e cooperazione della Rivoluzione francese sono regredite alla concezione patrimonialistica della sovranità, non più misurata dal dominium su beni reali e tangibili, ma dall’arte di trasmutare con la quinta essentia quanti più debiti in “valori” (cartolarizzazione).

18.7. Occorre essere consapevoli che la gestione della carta-moneta – e più recentemente della “moneta scritturale” – consente di speculare favolose rendite economico-finanziarie che gravano sul lavoro degli individui ed impoveriscono la collettività (famiglie ed imprese), così come un tempo gravava sui contadini la servitù della gleba. Anziché redistribuire, il “moderno” Stato nazione dotato della fabbrica del debito, favorisce l’accaparramento della ricchezza in poche mani (élite). L’attività bancaria (di credito), in uno Stato che si professa liberale e democratico, che vuole dare pari opportunità per ognuno, non dovrebbe essere impresa lucrativa (pubblica o privata), ma servizio di pubblica utilità senza finalità di lucro (no profit), asservito all’economia reale. Di fatto, tre privilegi sovrani (sovranità monetaria): di emissione (Cfr. 15.2, 15.3), del corso forzoso e del corso legale, inducono la banca ad accaparrarsi risorse e potere, di converso ciò determina il lento ma incessante peggioramento delle condizioni economico-sociali di individui, famiglie e imprese, oltre ciò che già sono per natura delle cose le allocazioni Pareto-efficienti (curva dei contratti). [40quinquies]

19. La Sovranità dello Stato tra fascismo e totalitarismi: corporativismo, nazismo, comunismo.

19.1. Nel 1920, dinnanzi al dilagare di corruzione parlamentare, compravendita del voto, clientelismo e patronato degli uffici, trasformismo, politicantismo e bossismo, machine politics, Alfredo Rocco non poté che affermare: “Lo stato è in crisi: lo Stato va dissolvendosi, giorno per giorno, in una moltitudine di aggregati minori, partiti, associazioni, sindacati che lo vincolano lo paralizzano, lo soffocano; lo Stato perde con moto accelerato, uno per uno gli attributi della sovranità“. Successivamente, nel 1927 scriverà in proposito delle differenze tra Stato liberale e Stato fascista: “Quest’ultimo è lo Stato veramente sovrano, quello che cioè domina tutte le forze esistenti nel paese e tutte sottopone alla sua disciplina.”[41]

19.2. La sovranità dello Stato si era ormai sostituita alla Sovranità del popolo ed in proposito Sergio Panunzio scrisse: “Lo Stato fascista è lo Stato forte, ossia sovrano.” Benito Mussolini a motivazione della nuova legge elettorale del 1928 affermò: “La dottrina fascista nega il dogma della Sovranità popolare e proclama il dogma della Sovranità dello Stato, organizzazione giuridica della nazione e strumento delle sue storiche necessità.”[42] Nello storico suo discorso del 14 novembre 1933 al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, egli dichiarò: “il corporativismo è l’economia disciplinata, e quindi anche controllata, perché non si può pensare a una disciplina che non abbia un controllo. Il corporativismo supera il socialismo e supera il liberismo; crea una nuova sintesi.” Erra chi crede che “Stato corporativo” significhi soltanto Stato fondato sulle “Corporazioni”. “Stato corporativo” e “Stato fascista” sono termini equivalenti, poiché, come disse Mussolini: “lo Stato fascista è corporativo, o non è fascista.[43]

19.3. Il concetto di “Stato corporativo” non è unicamente un concetto politico, ma è essenzialmente un concetto giuridico che riguarda la struttura dello Stato medesimo. Unitamente al “Manifesto dei Fasci italiani di combattimento”, pubblicato su “Il Popolo d’Italia” nel 1919, uno degli atti fondamentali del regime fascista fu la “Carta del lavoro“, il cui testo fu approvato dal Gran consiglio del fascismo il 21 aprile 1927. Benché non avesse valore di legge o di decreto, non essendo allora il Gran consiglio organo di Stato ma di partito, il testo fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927. La dottrina si destreggio nel superarne l’antinomia tra l’aspetto formale e quello sostanziale; la giurisprudenza non esitò ad affermare la forza cogente della “Carta del Lavoro”. Con la legge 13 dicembre 1928 n. 2832, il Governo Mussolini fu in seguito autorizzato dal Parlamento ad emanare le norme per la completa attuazione della “Carta del lavoro”. La legge 30 gennaio 1941-XIX n. 14 infine definì, quasi ex post, il valore giuridico della “Carta del lavoro” attribuendole il “valore” appunto di “Principi generali dell’Ordinamento giuridico dello Stato” da usarsi come “criterio direttivo per l’interpretazione e per l’applicazione della legge“. [42bis]

19.4. In quegli stessi anni in Germania, il re dell’acciaio Thyssen si fece apostolo delle dottrine di Othmar Spann sullo Stato corporativo fascista, collaborando con un certo Klein, segretario dell’IG-Farben per le questioni sociali. Il 19 novembre 1932, un gruppo formato da monopolisti, esportatori di Amburgo e latifondisti del circolo di Junker (la nobiltà terriera prussiana) indirizzò al Presidente della Repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg una petizione per la nomina a cancelliere del Reich di Adolf Hitler.[43bis]

19.5. Il 4 gennaio 1933 Hitler e l’ex Cancelliere della Repubblica di Weimar, Franz von Papen si incontrarono a casa del barone e banchiere, Kurt von Schröder e in un paio d’ore raggiunsero un accordo (“accordo Hitler-von Papen”) che si basava sui seguenti punti: assegnazione del cancellierato a Hitler e partecipazione al governo di von Papen e dei suoi amici; eliminazione dei socialdemocratici, dei comunisti e degli ebrei dai posti direttivi in Germania; ripristino dell’ordine. La sera del 27 febbraio 1933 il Reichstag brucia.[43ter] Il 28 febbraio 1933, con il “Decreto del Presidente del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato” (Verordnung des Reichspräsidenten zum Schutz von Volk und Staat), furono sospesi e limitati in Germania i diritti costituzionali: diritto di segretezza della corrispondenza (art. 112), di libertà della persona (art. 114), di inviolabilità del domicilio (art. 115), di libertà di opinione (art. 118), di associazione (art. 123), di riunione (art. 124), di difesa della proprietà privata (art. 153), e furono quindi attribuite all’autorità dello Stato (cioè a Hermann Göring) le facoltà di disporre perquisizioni e confische nonché di porre limiti ai diritti di proprietà. Il 30 gennaio 1933, Hitler viene investito da Hindenburg della carica di cancelliere del Reich.

19.6. Il 23 marzo 1933, Adolf Hitler riesce a far passare al Reichstag (Parlamento tedesco) – mentre nella piazza antistante le Sturm-Abteilungen (SA) gridano con cadenza martellante: “o la legge o la morte” – la “legge delega” costituzionale “zur Behebung der Not von Volk und Reich” (per eliminare le sofferenze del popolo e del Reich) – “Decreto o Legge dei pieni poteri” (Ermächtigungsgesetz), ai sensi dell’art. 48 della Costituzione. La “legge delega” attribuì per quattro anni al Führer la supremitas delle funzioni legislative: fu il fondamento giuridico e l’inizio della dittatura nazista auspicata dal Big business.[44] La Costituzione di Weimar non fu mai formalmente abrogata, si procedette invece con successive proroghe della “legge delega” costituzionale, l’ultima del 30 gennaio 1943 a tempo indeterminato.

19.7. I meccanismi giuridici con cui le autocrazie (tirannie) si instaurano, paiono costanti nel tempo, dalle deleghe attribuite ad Ottaviano Augusto per la “cura et tutela rei publicae“, sino all’ultima “legge 24 dicembre 2012 n. 234sulla delega al Governo per all’attuazione della normativa dell’Unione europea, per la cura et tutela della pace tra i popoli. Attraverso tali meccanismi si spinge la funzione legislativa lontano dalla portata di cariche (autorità) direttamente elette, quali voci autentiche espresse dalla potestas Populi, per consegnarla nelle mani di pochi nominati, voci fasulle per una sovranità ideale. In Italia, sono esempi recenti: la “riforma delle provincie”, il “progetto costituzionale di riforma del Senato”.

19.8. Il diritto corporativo non è letto nella realtà fattuale, ma è creato dall’autorità pre-costituita dalla classe dominante (élite) per tutelare il proprio dominium. (Cfr. Juan Berchmans Vallet de Goytisolo – 1917-2011). Il diritto corporativo è perciò l’espressione dell’ideale patrimonialistico medioevale di “dominio”, non dell’ideale democratico di “indisponibilità” e “detenzione” (nel senso dell’alternanza), del potere. I meccanismi giuridici per consolidare nello Stato la “proprietà” del potere sono quelli ordinari; l’ingranaggio principale su cui funzionano è la carta dei “valori”.

20. Il fascismo (o corporativismo) negli Stati Uniti D’America.

20.1. Il 16 giugno 1933, come parte del programma politico del New Deal in risposta alla Grande depressione, il Presidente Franklin Delano Roosevelt firmerà la legge sulla National Industrial Recovery Act (NIRA) approvata dal Congresso americano, che lo autorizzò a regolamentare le industrie allo scopo di alzare i prezzi dopo una severa deflazione e per stimolare l’economia. La NIRA, oltre a stabilire un programma di opere pubbliche noto come Public Work Administration (PWA) prevedeva la costituzione dell’agenzia (authority) denominata: National Recovery Administration (NRA), con il compito di sovraintendere alla stesura delle “norme di concorrenza leale” (“codes of fair competition”) per ogni industria da parte dei rappresentanti delle industrie stesse.

20.2. L’NRA aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia, sebbene non fosse presente il fenomeno caratteristico dello squadrismo. Era essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata (autogoverno industriale), con supervisione governativa.[45]

20.3. Il nascente corporativismo (o fascismo) ai danni del popolo americano fu stroncato nel 1935 dalla Corte suprema. In pratica il code of fair competition violava la separazione costituzionale dei poteri e costituiva una delega illegittima al governo dei poteri legislativi del Congresso, garantiti dalla Commerce clause (United States Constitution: Art. I, Sect. 8, Clause 3). Per ironia della sorte, a vincere la causa intentata contro gli Stati Uniti d’America fu l’industria dei polli (A.L.A. Schechter Poultry Corp. v. United States, 295 U.S. 495, 1935).

21. Il fascismo (o corporativismo), uscito dalla porta, rientra dalla finestra nell’Europa post-bellica.

21.1. Il 9 maggio 1950, con la dichiarazione di Schuman, Ministro degli Esteri del governo francese, venne posta a Parigi la pietra angolare del palazzo che ospiterà in Europa quel modello di legislatore tecnocratico (privo cioè di legittimazione popolare) che negli U.s.a. si palesò come forma di “autogoverno industriale” non violento (la N.R.A.) e che fallì solo per l’intervento avveduto della Corte Suprema (cfr. 19.2 e 19.3). In Europa quelli erano gli anni del piano Marshall, della ricostruzione post-bellica ed il Big Business verosimilmente necessitava di spartirsi concordemente (finalità pacifica) le extra-rendite garantite dalle commesse pubbliche e conseguenti alla eliminazione dei dazi, senza scontri o rivalità ed indipendentemente dalla nazionalità degli adepti, creando regole ad hoc per scongiurare il pericolo rosso. Occorreva cioè creare una sorta di camera di compensazione della extra-rendite produttive generate dalla ricostruzione dell’Europa post-bellica.[46]

21.2. Di lì a poco, con il trattato di Parigi del 18 aprile 1951, nacque quindi il proto-tipo di corporazione o fascio europeo: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Questo “nuovo” modello di “Alta” (che anela cioè al divino) autorità regolamentare, corporativa e sovranazionale per l’Europa retta essenzialmente dall’autocrazia “alta” di decisori, burocrati, personalità indipendenti nominate (non elette), mosse i primi passi costruendosi con le proprie sostanze (indistintamente pubbliche e private definite genericamente “produzioni”), allo stesso modo in cui le térmiti si costruiscono le gallerie verso la casa di legno, una solida struttura di passaggio dentro e fuori dai gangli degli Stati nazionali, in chiave rigorosamente economica (per non destare sospetti). Successivamente attraverso l’esperimento dell’Unione Europea Occidentale (EUO) si è dunque giunti alla Conferenza di Messina del 1955 e poco dopo il neo-corporativismo europeo sarà sancito dai trattati di Roma del 1957 con il nome di Comunità Economica Europea (CEE) che a decorrere dal trattato di Maastricht assumerà, guarda caso, la denominazione di Comunità Europea (CE), cioè senza più “economica”. Il Mercato Europeo Comune (MEC) rappresenterà per lungo tempo la prateria dove gli elefanti (industrie multinazionali) poterono effettuare le loro scorribande indisturbati.

21.3. Come negli U.s.a., anche in Europa il corporativismo giuridico si formò con l’emanazione di norme sulla tutela della concorrenza (c.d. antitrust). Tali norme verosimilmente regolavano l’equa distribuzione degli extra-profitti garantiti dalla politica corrotta alla classe dominante (élite). L’espediente propagandistico per giustificare autocrazia fu quello classico: la cura et tutela di “valori” relativamente attinenti ai fatti. Nel caso specifico il valore relativamente attinente alla realtà da tutelare ad opera dei numina tecnocratici fu individuato nel principio della “concorrenza economica” e nella difesa dal “pericolo rosso”. Ben presto, la parte del leone nel bilancio della CEE fu però assunta dalla Politica Agricola Comunitaria, la PAC, che garantiva extra-rendite non più ai grandi industriali ma ai grandi latifondisti. Il meccanismo prevedeva l’acquisto sui mercati per mano pubblica delle derrate agricole da stoccare nei magazzini al fine di mantenerne alto il prezzo e quindi il reddito degli agricoltori. Nel 1988, si tenne a battesimo per opera della Commissione Delors la “nuova” politica agricola comunitaria del set-a-side. Le extra-rendite ai grandi latifondisti furono cioè garantite senza che vi fosse tuttavia la necessità di coltivare ancora le terre: a terre incolte. Noto fu lo scandalo dei fondi percepiti per decenni dalla regina D’Inghilterra per i suoi latifondi incolti, una cittadina non proprio bisognosa di integrazione del reddito agricolo per mano pubblica.

21.4. Nel 2009, con il trattato di Lisbona, nasce l’Unione Europea (UE) quale ulteriore passo verso un nuovo ordine mondiale sovraordinato agli Stati nazionali. Nel trattato di Lisbona continua difatti ad essere negata la potestas Populi, dato che nemmeno esiste un popolo europeo. Il Parlamento europeo – quale unico organo dell’Unione europea direttamente eletto dai cittadini degli Stati nazionali – non ha pressoché alcuna competenza legislativa. Sicché in carenza di una qualsiasi forma di partecipazione popolare al processo legislativo, nemmeno attraverso eventuali referendum che potrebbero giustificare un regime direttoriale (Svizzera), si rende inequivocabile la natura esclusivamente corporativa (o fascista) della legislazione sovranazionale europea. Occorre essere consapevoli che lo pseudo-diritto europeo, che illegalmente viene giudicato dai più come sovraordinato rispetto alle leggi nazionali, non è più relegato al campo strettamente economico, ma sconfina in importanti ambiti, che spaziano dalla giustizia agli affari interni, sino alla politica estera e di difesa comuni. Le modalità di produzione dello pseudo-diritto europeo si pongono in aperto contrasto con i principi della Costituzione italiana, dove all’art. 1, si afferma letteralmente che la Sovranità appartiene al popolo!

22. Il corporativismo giuridico in Italia dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo fascista.

22.1. Occorre qui evidenziare che i regolamenti corporativi e sovranazionali dell’autocrazia europea (regolamenti comunitari) sono divenuti vincolanti per i singoli cittadini italiani (contenuto intersoggettivo) solo per via surrettizia, precisamente per le ripetute interpolazioni del denotato del termine “sovranità” contenuto nell’art. 11, operate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. La Corte incoerentemente ritiene che “sovranitá” all’art. 11 denoti la “sovranità del Popolo” (potestas Populi) all’art. 1, mentre il significato sistematico dovrebbe essere “imperium“; sicché il testo là contenuto: “limitazioni della sovranità” andrebbe letto nel senso coerente di “limitazioni dell’autorità (militare)”. L’interpolazione della Corte avallata implicherebbe che lo Stato all’art. 11 nega se stesso, il che è palesemente impossibile! Ed ancora, siccome non esiste forma senza sostanza, lo Stato che nega se stesso nella sostanza, lo fa anche nella forma, il che è vietato dall’art. 139 della Costituzione!

22.2. Dapprima, nel 1964, i regolamenti sovranazionali furono parificati alle leggi della Repubblica (sentenza n. 14/1964). L’art. 11, fu ritenuto norma permissiva, quando ricorrano certi presupposti, delle limitazioni della Sovranità popolare al punto di negarla, laddove il giudice costituzionale afferma testualmente in sentenza che ai “trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità … é consentito darvi esecuzione con legge ordinaria“. Dopo aver lo Stato ripudiato la guerra, quando ricorrano certi presupposti, la sola limitazione che si può coerentemente assumere, all’art. 11, senza negare se stessi, è quella dell’Autorità militare dello Stato medesimo, quella maiestas imperium detenuta dal Capo dello Stato; giammai si potrebbe limitare, dividere, alienare o prescrivere la Sovranità popolare (potestas Populi) all’art. 1, salvo che lo Stato non voglia negare la sua esistenza (dignitas auctoritas). L’interpolazione del vocabolo “sovranità” dell’art. 11, è tanto più evidente se si considera che la Costituzione italiana nega il referendum abrogativo (art. 75) per le leggi ordinarie di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, in virtù del principio consuetudinario del diritto internazionale “pacta servanda sunt“. L’interpolazione dei giudici costituzionali aprì la finestra al corporativismo giuridico europeo; di conseguenza fu legittimata la dottrina dei poteri impliciti, ossia il principio per cui sarebbe ammissibile creare per legge ordinaria nuove Autorità legislative (ratione materiae) per la cura et tutela settoriale (Commissione europea). Il problema è che la dottrina dei poteri impliciti, in vero, può valere solo per gli Stati federali, come sono appunto gli Stati Uniti D’America, che avendo un unico Popolo (motto: “e pluribus unum“) hanno un corpo legislativo (Parlamento federale) che non nega il principio della Sovranità popolare. Ciò ovviamente non può valere per le unioni di popoli come l’Unione europea che, come noto, sono enti privi di Sovranità originaria. Il Parlamento europeo non è l’organo legislativo dell’Unione eropea e la Commissione europea è dotata nell’ambito dei trattati internazionali di un’autorità derivata (sovranazionale), non è l’espressione della Sovranità popolare, non ha la dignitas auctoritas per essere corpo legislativo vincolante nei confronti dei singoli. L’Unione europea non è espressione della potestas Populi, ma dell’ auctoritas dei vari Stati in ambito internazionale.

22.3. In seguito, nel 1973, si arrivò addirittura a dichiarare i regolamenti comunitari sovraordinati alle leggi della Repubblica (sentenza n. 183/1973). Il giudice costituzionale negò il diritto originario del Popolo italiano di scegliersi il legislatore (Sovranità popolare) postulando la piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione delle norme (economiche) comunitarie del legislatore autocratico. Le veci della Sovranità popolare, quale fonte originaria di ogni ordinamento, furono attribuite a dogmatiche “esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica“. La Corte giunse sino a certificare in sentenza l’usurpazione della “potestà normativa” da parte “del Consiglio e della Commissione“, relegando l’Autorità del legislatore legittimo, il Parlamento italiano, a semplice organo di controllo della pseudo-legislazione corporativa europea. L’interpolazione della Sovranità popolare fu completata dando a battesimo, in sua vece, l’autoreferente sovranità “dei valori”, come segue: “i regolamenti comunitari debbono statutariamente corrispondere ai principi e criteri direttivi stabiliti dal Trattato istitutivo della Comunità“. L’asserzione, come si può ben notare, non significa affatto che i regolamenti comunitari debbano corrispondere alle libertà e diritti individuali, come stabiliti nei principi fondamentali della Costituzione italiana! Nacque così l’esigenza sistematica di dotare la tirannia di una “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea“; un emblema di piombo ricoperto da una sottilissima lamina di carta dorata, che celebra l’unico “valore comune” (ma non per tutti) che, badate bene, i governanti dei popoli europei e non i popoli europei, hanno saputo creare: l’euro!

22.4. Da ultimo, nel 1984, la prevalenza del diritto corporativo adottato dalla tirannia sovra-nazionale fu confermato e rafforzato, facendo leva sull’aberrazione dell’art. 11 dal “principio della Sovranità popolare” unitamente al sovvertimento del “principio di legalità” e delle fonti del diritto (sentenza n. 170/1984). Il giudice costituzionale negò così ripetutamente, ben ben tre volte, il diritto originario del Popolo italiano di scegliersi il legislatore e giunse fino a celebrare l’autocrazia europea e l’usurpazione di potere per ratione materiae, come segue: “il regolamento, occorre ricordare, é reso efficace in quanto e perché atto comunitario”; “la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale é interamente attratta sotto il diritto comunitario.” Come si può agevolmente notare, per la Corte interpolatrice, il diritto comunitario (corporativo) è legittimo, direttamente applicabile e prevalente sull’ordinamento nazionale non in quanto e perché il regolamento è approvato da un corpo legislativo direttamente eletto dal popolo Sovrano, ma perché è un atto comunitario (autoreferenza).

22.5. Queste sentenze in vero sono gallerie di duro cemento verso la Costituzione italiana, costruite da insetti ciechi mischiando materiale di loro stessa produzione: “forza (illegale) e valore (relativamente attinente ai fatti)”, per svuotarla dall’interno; L’opera di muratori del general contractor della tirannia, comporta che la Carta costituzionale, le libertà civili ed i diritti individuali che essa tutela dagli abusi dell’Autorità costituita (Stato), sono tutti svuotati di contenuto e significato giuridico al cospetto del “trattato” e della carta dei “valori” mistici, sbandierati e indottrinati (a colpi di propaganda e inganni) dall’autocrazia che tenta di imporre la supremitas delle proprie pseudo-leggi corporative secondo un male inteso ubi maior, minor cessat, dove solo il minor è degno.

LIBRO TERZO – A RIMEDIO

1. Frasando

1.1. A rimedio c’è che il giudice costituzionale che redige la sentenza “in nome del Popolo italiano” ed ivi nel contempo nega la Sovranità popolare, ammettendo la supremitas dell’ordinamento sovra-nazionale autocratico, nega se stesso! C’è che quei magistrati ordinari che asseriscono nella sentenze di amministrare la Giustizia “in nome del Popolo italiano” e nel contempo disapplicano le leggi approvate dal Parlamento, dichiarano il falso!

1.2. Come scrisse Dante Alighieri nel De Monarchia, in proposito del falso storico della “donazione di Costantino”: Constantinus alienare non poterat imperii dignitatem… si ergo alique dignitates per Constantinum essent alienate, scissa esset tunica inconsultis. (Cfr. De Monarchia, iii, X, 4-6).

2. Parafrasando

2.1. I giudici ordinari che decidono “in nome del Popolo italiano”, loro Sovrano, non possono validamente disapplicare la legge della Repubblica e dichiarare sovra-ordinato l’ordinamento di un’Autorità legislativa nazionale o internazionale indegna – che non è sottoposta cioè al diritto Sovrano (uno e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile) del Popolo di scegliersi il corpo legislativo, con voto personale e libero (elezione diretta) (delegata potestas non potest delegari, cfr. anche Corte Costituzionale, Sent. 1/2014) – senza negare la loro stessa dignità.

2.2. Non è dallo Stato, ma è dal Popolo – riconosciuto Sovrano e che nel contempo si professa “legibus alligatum” all’art. 1 della Costituzione (vincolo di obbedienza) – che al magistrato idoneo (per “concorso pubblico” e non per “voto diretto”) discende la dignità dell’Autorità (dignitas auctoritas) di amministrare la Giustizia “in nome del Popolo italiano”, vincolato alla sola legge approvata dal Parlamento.

3. Generalizzando

3.1. Questi magistrati (legislatori, giudici e comandanti), che negano la loro stessa dignitas auctoritas (Autorità civile e giudiziale) o la loro stessa maiestas imperium (Autorità militare) negando la potestas Populi (Sovranità) che rappresentano, e, che nel contempo violano quel giuramento di fidelitas (vincolo di obbedienza) fatto alla Repubblica (Stato democratico), se sono spergiuri (cfr. Cost. art. 91 e la salvata L.478/1946) senza sapere ciò che fanno: i loro atti “giuridici” sono fasulli (nulli, invalidi o inefficaci); se hanno accettato doni: sono alchimisti, usurpatori e traditori della peggiore specie (Cost. art. 90 e Artt. 287 e 294 c.p.) nostri nemici autentici (stasiòtes/homo sacer)!

EPILOGO

Il messaggio autentico dello slogan: “unione europea” è quindi: “frammenta il popolo in massa et impera!”

Dedica: “Ovidio mi fu gran maestro, nella conquista d’amor patrio!”


NOTE

1. “La Costituzione italiana del 1948 non sembra aver recepito il sistema classico della sovranità soggettiva: essa delinea invece un sistema di potere basato sulla sovranità del valori.” (Gaetano Silvestri, 1996). Cfr. contra “La resurrezione della sovranità statale nella sentenza n. 365 del 2007″ di Omar Chessa, in Le Regioni, 2007. Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 106 del 2002. Cfr. anche il “Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991”, pag. 42. Nella carta di Nizza è testualmente scritto nel preambolo: “…l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali… L’Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni… La presente Carta riafferma …i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.. L’art. 52, par. 3, della carta di Nizza prevede il c.d. abuso del diritto, ossia quella dottrina che consente di annichilire i diritti individuali di fronte ai valori comuni della carta. Di fatto, a tale “norma” deve essere attribuita la funzione di garantire la salvaguardia dei valori così impedendo che le libertà democratiche (diritti individuali) possano essere invocate per perseguire finalità anti-democratiche, di modo che si possa instaurare più agevolmente il “nuovo” regime a-democratico. La questione è molto semplice: il marciume ideologico, avendo ormai putrefatto il sistema politico, ha iniziato a imputridire (ovviamente dall’alto) anche il sistema giudiziario. All’illegittimità ora si somma l’illegalità. Elencazione non esaustiva dei diritti (o libertà) individuali (o fondamentali) della Costituzione italiana, che l’Unione europea ha messo sotto la propria “magnificente tutela”: diritti della personalità, libertà personale, di circolazione, di soggiorno, di espatrio, di domicilio, di segretezza della corrispondenza e di ogni altra comunicazione, di manifestazione del pensiero, di informazione, di religione, di coscienza, della ricerca scientifica, della e nella scuola, di istruzione e di studio, di riunione, di associazione, delle associazioni sindacali, di sciopero, della proprietà privata, di iniziativa economica; diritti sociali: allo stato sociale, al lavoro, alla salute, all’assistenza e alla previdenza, all’abitazione.

1a. “L’Europa viene costruita su leggi non democratiche e su procedure simili al “fast track [negotiating authority]” U.S.A., o delle ordinanze francesi emesse dal potere esecutivo. I parlamenti nazionali sono acquiescenti e così operando non rendono un buon servizio al principio della Sovranità popolare”. Vincenzo Accattatis, Alternativa Europa, 2/1999. Tratto da “Diritto a comunicare e sovranità popolare”, Enrico Giardino, 2003. Le procedure di “fast track” lasciano al Presidente U.S.A. mano libera in materia di trattati internazionali, il Congresso può solo dire SI o NO alla loro ratifica. Le “ordinanze francesi” richiamate sono quelle del regime assoluto napoleonico.

1aa. Plutarco, Vite Parallele, Vita di Cesare, 17.2 – Traduzione di Domenico Magnino per Fabbri Editore: “Quando a Milano da Valerio Leonte, suo ospite, lo invitò a pranzo e gli servì asparagi conditi con unguento aromatico (mirra), anzichè con l’olio, egli nè mangiò tranquillamente e ne criticò gli amici che erano disgustati.” Pare difatti che il condimento, giudicato maleodorante, fosse stato interpretato come un’offesa dai militi romani, tanto che dovette intervenire Cesare, per evitare il rifiuto di proseguire il banchetto e sedare gli animi, con la celebre frase: “i gusti non si disputano” (ogni popolo ha i suoi).

1b. “Non so se tutti abbiate familiarità con le térmiti. Per quei pochi che eventualmente non l’avessero ricordo che le térmiti sono insetti ciechi, della sottoclasse degli pterigoti, ordine degli isotteri, noti in entomologia sia per il loro polimorfismo e la loro particolare organizzazione sociale (tratti che in questa sede non interessano) sia per il loro modo di approvvigionarsi di cibo (tratto che in questa sede ha invece un qualche interesse), cibo che è costituito per lo più da cellulosa. Dunque le térmiti, essendo cieche, prendono tutte le precauzioni per non essere viste quando sono fuori dal nido; e così quando hanno localizzato una consistente fonte di cellulosa – per esempio, una casa di legno – con un cemento durissimo di loro produzione costruiscono dal loro nido una galleria, poco più grande di una matita ed entro la quale possano andare su e giù indisturbate, sino alla base della struttura della casa; la forano e penetrano all’interno del primo asse di legno. E di là, diffondendosi di asse in asse – sempre operando all’interno, e quindi restando sempre invisibili – si diffondono in tutta la struttura e la svuotano letteralmente. I loro ingegneri sono abili e prudenti: sono capaci di svuotare dall’interno tutta la casa senza che nessuno se ne accorga e senza che crolli (il che le esporrebbe agli attacchi dei loro nemici naturali, che essendo vedenti avrebbero buon gioco di loro); gli entomologi hanno addirittura notato che quando qualche struttura è stata divorata troppo a fondo le térmiti provvedono a rinforzarla, per evitare crolli che rivelino la loro presenza. Dopo aver divorato tutto il divorabile le térmiti rientrano nel nido. La porta d’accesso alla galleria viene murata. L’operazione è conclusa. A quel punto la casa in legno resta in piedi, apparentemente intatta. Il padrone, tornandoci a distanza di tempo, la vede e dice tra sé soddisfatto: tutto è a posto. Ma basta che sbatta la porta con forza o che dia un colpo sul muro perché tutta la costruzione venga giù come un castello di carte. Qualcosa del genere sta accadendo all’ordinamento nazionale ad opera dell’ordinamento comunitario. I Trattati di Roma hanno costituito delle gallerie in durissimo cemento attraverso le quali le norme comunitarie, come un esercito di térmiti, sono penetrate nell’ordinamento nazionale e lo stanno progressivamente svuotando. Per fortuna, a differenza di quello che accade in una casa in legno, le norme comunitarie non si limitano a distruggere ma costruiscono dall’interno un loro sistema che viene gradualmente a sostituire quello nazionale: non c’è il pericolo che tutto crolli all’improvviso. Ma c’è sempre l’effetto della continua, inarrestabile e tendenzialmente irreversibile erosione dell’ordinamento nazionale.” Salvatore Giacchetti, Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria, Relazione presentata al XXXVIII convegno di studi amministrativi, svoltosi a Varenna il 17-19 settembre 1992, sul tema: «Potere discrezionale e interesse legittimo nella realtà italiana e nella prospettiva europea», pubblicata in Giur. amm. sic. 1992, p. 879 ss., LexItalia.it – Cfr. anche Giovanni Virga, Le “térmiti” comunitarie ed i “tarli” dei trattati internazionali, LexItalia.it n.10/2007.

1c. Assemblea generale. Il Parlamento svizzero. Interpellanza 09.3256 del 20 marzo 2009:
“A causa della competenza del Consiglio federale di concludere trattati internazionali, sempre più frequentemente i diritti democratici del nostro Paese vengono scardinati. Spesso né il Parlamento né il popolo possono pronunciarsi a titolo preliminare su simili trattati. E tutto ciò nonostante il fatto che i trattati internazionali riducano notevolmente la capacità d’agire della Svizzera e impediscano l’applicazione del diritto interno. La conclusione di trattati internazionali indenunciabili incide profondamente e pericolosamente sui diritti del popolo svizzero, poiché determina in modo irreversibile il futuro del nostro Paese, il più delle volte senza alcuna legittimazione democratica.
Chiedo al Consiglio federale di rispondere alle domande seguenti:
1. Il Consiglio federale riconosce che la conclusione di trattati internazionali solleva problemi a livello democratico?
2. Come intende il Consiglio federale rafforzare i diritti del Parlamento e del popolo svizzero in questioni internazionali?
3. Sono già stati conclusi trattati internazionali indenunciabili? Se sì, quali?
4. Questi trattati sono davvero indenunciabili o esistono in ogni caso condizioni che consentono di disdirli?

1bis. Parlamento europeo – Interrogazione parlamentare scritta di Patricia McKenna (Verts/ALE) alla Commissione, n. P-1370/03 del 4 aprile 2003 – Oggetto: Legami dei Commissari con il Gruppo Bilderberg.
“I Commissari Mario Monti, Erikki Liikanen, Pedro Solbes Mira, Gunther Verheugen, Antonio Vitorino e Frederik Bolkestein hanno, in passato, partecipato a riunioni del Gruppo Bilderberg e sono, pertanto, membri di fatto, dato che vengono mantenuti informati sulle sue attività. Romano Prodi, Presidente della Commissione, è stato membro del comitato direttivo di tale gruppo negli anni ’80, epoca in cui il Presidente della BCE, Wim Duisenberg, era tesoriere. Tre Commissari sono o sono stati membri della Commissione Trilaterale: Mario Monti, Chris Patten e Pedro Solbes Mira.
Può la Commissione indicare il nome dei Commissari che parteciperanno alle prossime riunioni del Gruppo Bilderberg e della Trilaterale, precisare se essi parteciperanno a nome della Commissione o a titolo apparentemente privato e se beneficeranno di indennità giornaliere o di altri rimborsi per le spese associate a tali riunioni? Può la Commissione assicurare che tali adesioni vengano menzionate nella dichiarazione di interessi finanziari di ogni Commissario?”
Risposta del 15 maggio 2003, data dal sig. Prodi a nome della Commissione.
“Numerosi membri della Commissione sono stati invitati e hanno partecipato alle riunioni del gruppo Bilderberg, alcuni durante il loro mandato alla Commissione, altri sono stati invitati e hanno partecipato prima di essere membri della Commissione e non hanno più partecipato durante il loro mandato. È necessario precisare che la qualità di membro del gruppo non è previsto dallo statuto di tale gruppo. Esiste solo la figura di “membro dello Steering Committee”.
Nessun membro della Commissione è membro dello Steering Committee. Persone non appartenenti allo Steering Committee del gruppo Bilderberg possono essere invitate alle sue riunioni.
La partecipazione occasionale a una riunione non giustifica una citazione sulla dichiarazione d’interessi prevista dal Codice di condotta applicabile ai Commissari. Infatti, la partecipazione occasionale a una conferenza o il fatto di ricevere informazioni sulle attività di un gruppo non implicano necessariamente l’appartenenza o la qualità di membro di un gruppo.
Quanto alla partecipazione alla prossima riunione del gruppo Bilderberg, che avrà luogo dal 16 al 18 maggio 2003 a Versailles, è necessario precisare che tre Commissari hanno accettato l’invito che hanno ricevuto a causa delle funzioni che essi esercitano, anche se non partecipano a nome del Collegio. Si tratta di M. Monti, F. Bolkestein e P. Lamy. La loro trasferta si effettuerà sulla base delle norme generalmente applicabili in materia.
Per quanto riguarda la Commissione Trilaterale, il suo statuto esclude la partecipazione di un membro che esercita una funzione pubblica. Nessun Commissario è quindi membro della Commissione trilaterale e nessun Commissario ha manifestato, fino ad oggi, la sua intenzione a partecipare a una delle prossime riunioni della Commissione trilaterale.”

1bis2. La Marsigliese, l’inno nazionale francese, inizia con le parole Allons enfants de la Patrie. Originariamente composto come canto rivoluzionario (da Claude Joseph Rouget de Lisle a Strasburgo nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1792, quando la Francia dichiarò guerra all’Austria) fu ufficialmente adottato come inno nazionale il 14 luglio 1795.

1ter. La ratio pensando, numerando, misurando assegna i confini e circoscrivendo un’idea, un potere, lo fissa; così stat posse: quindi potestas. Quando il potere (posse) è arrivato a suo compimento si arresta (stat). Potestas evoca l’idea della lancia (curis) che brandita dal soldato cerca l’obiettivo, lo colpisce e lo arresta; evoca l’idea dell’esercito (arcaico: populus) che obbedendo al comando militare (imperium) del suo condottiero (dux), si scaglia contro il nemico e lo annienta (Veni, vidi, vici, Giulio Cesare, de bello gallico); evoca la volontà del popolo che accetta di essere guidato alla ricerca di una terra dove prosperare (arcaico: tribus), la trova, se ne impossessa e la domina. Vis et potestas è espressione frequentissima negli antichi è sta ad indicare estensione ed intensità effettiva di una forza, tale espressione fu dai Latini sostituita dal termine scolastico essentia, che entrò in uso solo dopo l’imperatore Adriano; l’espressione Vis et potestas denota forza legale, mentre vis semplicemente detta forza illegale, violenza (Gianbattista Vico). La volontà del popolo dei Romani: “potestas populi Romani“. Era consuetudine che il dictator rinunziasse all’imperium una volta che era compiuta la campagna semestrale estiva (De Francisci, 1968). Dione Cassio (163 ca – 229 ca) nella sua Storia romana (Cass. Dio hist. rom. 55.3) scrisse che il vocabolo auctoritas non aveva equivalenti in lingua greca, nel seguente contesto: Augusto obbligò tutti i senatori ad intervenire alle adunanze; se poi non se ne riunivano nella Curia tanti, quanti ne erano necessari, allora quelli che vi si ritrovavano si consultavano tra loro, e se ne scriveva la deliberazione che non aveva forza di decreto del Senato, ma si chiamava semplicemente autorità del Senato. “La forza poi, ed il significato di questa parola autorità è tale, che non si può rendere con una sola voce nella greca favella” (Traduzione tratta da: Da Giovanni Viviani, Milano, 1893). Sempre secondo Dione Cassio, la stessa regola si teneva anche quando i senatori si radunavano senza avere ricevuto alcuna convocazione legittima, o in luogo, o in tempo non convenienti, o quando i tribuni della plebe facevano qualche opposizione, siccome in simili casi non si poteva fare il decreto, il Senato non voleva che il suo parere, senza il nome di decreto, rimanesse occulto e privo di validità, secondo il costume romano. Francesco Filelfo (1398 – 1481) nega che non vi sia equivalente in lingua greca (lib. 17 epist. I, ad Albertum Scoptum). Prendendo spunto da Niccola Nicolini (Della procedura penale nel Regno delle Due-Sicilie, Napoli, 1828, pag. 142 e segg.) si potrebbe affermare che in era arcaica la voce “auctoritas” denotasse un diritto originario (dritto proprio e voce solenne di dritto) di capacità di possesso dei beni (animus possidendi), prodromico al diritto di proprietà (dominium). In questo senso, auctoritas si trova nelle leggi delle XII Tavole (XII Tabulae, VI, 4): usus auctoritas fundi biennis est, ceterarum rerum annus – Furtivae rei aeterna auctoritas esto (Gravina, de origine iuris, II, cap. 39). Usus auctoritas, hoc est ius usucapionis (Gravina, Originum iuris civilis libri tres, 272. De iure naturali, Gentium, Napoli F.Mosca 1713, a cura di Lomonaco, Vol.I, Liguori Ed.,2004). Gravina interpreta così le XII Tavole: “Il dominio dei fondi si acquista con l’uso, ossia il possesso biennale; dei mobili col possesso di un anno – Il proprietario non perde mai il dominio della cosa ch’è stata rubata o il di cui possesso è caduto in mani agli stranieri.” (ibid. Niccola Nicolini, Napoli, 1828). L’Actio auctoritatis (o de autoritate) è l’azione possessoria. Aeterna auctoritas è il diritto di possedere illimitato nel tempo. Il vocabolo arcaico auctoritas contenuto nelle XII Tavole denotava quindi inizialmente l’originaria capacità di possedere propria dell’uomo (animus possidendi) connessa all’uso dei beni. In seguito il significato arcaico si sdoppiò: da una parte, unendosi all’idea di suità (diritto di ereditare), cadde e divenne dominium (da domus), dando così origine alla particolare idea di proprietà civile, che denotò la proprietà di un fondo e degli schiavi appartenenti all’individuo (Paolo, l. 215 de verb signific.), mentre patria potestas (da pater) denotò il diritto proprio sulle persone della famiglia; dall’altra auctoritas si elevò a denotare la capacità di possesso della carica pubblica o il personaggio pubblico che indicava agli altri la dritta via. Un popolo senza la guida legittima perde subito la dritta via, si perverte e si prostra all’idolatria (Sacra Bibbia, Esodo 32, 1-9). La voce auctoritas espressa al massimo punto diventa maiestas: imperium maiestasque populi Romani. Così, mentre l’auctoritas viene a denotare la “capacità di possesso” della Res publicae conferita a nome della comunità alla carica pubblica (senza possibilità per tale capacità di consolidarsi in dominium), l’imperium denota la capacità o diritto di comando della rei militaris. La codificazione contenuta nelle XII Tavole era considerata dai Romani la base del diritto ed il punto di partenza della successiva evoluzione e sarebbe stata emanata da un collegio di magistrati straordinari: i decemviri (De Francisci, 1968).

1ter2. Nella Repubblica, Trasimaco sostiene che la Giustizia è l’utile del più forte, cioè che le leggi giuste sono quelle stabilite dal più forte per conservarsi il governo, infatti per Trasimaco quando si combatte per il potere i vincitori si impadroniscono a tal punto degli affari della città da non lasciarne nulla agli sconfitti, né ai loro discendenti, vivendo guardandosi l’uno dall’altro. Socrate confuta questo ideale della Giustizia dicendo che queste non sono costituzioni, non sono leggi corrette, perché non sono state stabilite per tutta la polis in comune, infatti per Socrate se le leggi sono stabilite solo per qualcuno questi non è cittadino ma fomentatore di guerra civile (stasiòtes). Cfr. Confutazione di Trasimaco nelle Leggi di Platone. L’ipotesi contrattualistica di Glaucone per cui la Giustizia è un modus vivendi tra persone che non hanno la forza di sopraffarsi a vicenda, anticipa il contrattualismo di Hobbes.

2. L’apologeta del diritto naturale Juan Berchmans Vallet de Goytisolo (1917-2011) è un giurista cattolico fra i più insigni d’Europa e tra i padri della moderna dottrina del diritto naturale. Secondo i suoi insegnamenti, il legislatore non crea il diritto, che già c’è, ma si limita a riconoscerlo perché esiste una realtà oggettiva, “naturale”, che la ragione può conoscere, sicché prima del diritto positivo esiste un diritto iscritto nella stessa natura: il diritto naturale. Il “legislare è un legere” e la consuetudine è lì a dimostrarlo. Con la svalutazione luterana della ragione si arrivò a negare o che esista una legge naturale ovvero che la ragione, se pure questa legge esiste, sia capace di conoscerla. L’autorità dunque non crea più la legge “leggendola” nel reale ma è autorizzata a inventarsela con un puro atto d’imperio e di volontà: si passa dal legislare come legere al legislare come facere. Il legislatore crea il diritto, è nozione molto comoda per il principe, che si trova così in grado di esercitare il suo potere secondo la regola dell’assolutismo: un potere absolutus, cioè solutus ab, “sciolto da” ogni vincolo a una legge naturale preesistente. Se non ci sono princìpi che la ragione può conoscere e che valgono per tutti, la volontà del sovrano non ha limiti. Vallet de Goytisolo ha dedicato la vita a difendere precisamente questa posizione: riconoscere l’esistenza di un diritto naturale valido per tutti è l’unica difesa della libertà contro la tecnocrazia e il totalitarismo. La legge separata dal diritto naturale diventa infatti licenza e arbitrio per lo Stato – o per il giudice, quando travalicando la sua funzione decide di farsi a sua volta produttore di legge – di reinventare la realtà e di fare tutto quello che vuole. La premessa della tecnocrazia è la trasformazione del popolo in massa, un processo che rende gli individui sradicati dalla propria eredità regionale e nazionale, culturale e religiosa, plastici e malleabili, isolati dalle loro comunità naturali e soli di fronte allo Stato moderno che si appresta a manipolarli. La conseguenza della tecnocrazia è il totalitarismo o fascismo (Benedetto XVI, 2009, Caritas in veritate), che per Goytisolo non è un tipo di Stato ma l’assorbimento totale e finale della società da parte di uno Stato, che non risponde a scopi predefiniti da una nozione naturale di bene comune ma si dichiara libero d’inventarsi di volta in volta gli scopi, che più aggradano la classe dominante per l’autoconservazione del potere, definiti sulla base di una coscienza mistica del popolo personificata nello Stato medesimo (autoreferenza o autopoiesi).

3. Cum potestas in populo auctoritas in senatu sit – Cicerone (De Legibus 3, 28). Secondo Cicerone, l’istituto repubblicano contenuto nella lex curiata de imperio – che consentiva al popolo romano attraverso i comizi curiati di attribuire (legittimare) ai consoli i poteri (civili) di governo (auctoritas) e il comando militare (imperium) – risaliva all’età monarchica e serviva per giustificate l’attribuzione dell’imperium ai successori di Romolo. Se non in età sabina, quando il re sembrava essere il capo civile e religioso con limitata autonomia di governo, certo in età etrusca il re riceveva dai comitia curiata l’imperium tipico delle monarchie etrusche a carattere militarista (Guarino, Napoli, 1975). Sempre secondo Cicerone i successori di Romolo, da Numa Pompilio fino a Servio Tullio vollero che il loro potere fosse sanzionato con Leges regiae (De Re Publica, II, 13 [25] per Numa Pompilio; 17 [31] per Tullo Ostilio; 18 [33] per Anco Marzio; 20 [35] per Tarquinio Prisco; 21 [37] per Servio).
Lex est generale iussum populi aut plebis rogante magistratuAteio Capitone, (Gell. X, 20, 2). La legge è la deliberazione generale del popolo o della plebe chiesta dalla carica pubblica. La deliberazione generale si manifestava attraverso l’acclamazione concorde dell’intero popolo: una voce universus populus (Itaque me non extrema tribus suffragiorum, sed primi illi vestri concursus, neque singulae voces praeconum, sed una voce universus populus R. consulem declaravit – Cic. De lege agr. II). “Si rilevi qui una volta per tutte il plurale comitia (curiata, centuriata, tributa) che rileva come le assemblee popolari romane, pur essendo concepite come una unità, non abbiano mai smarrito completamente il carattere di un insieme di riunioni di raggruppamenti minori: infatti i voti sono sempre dati e contati per curie, per centurie, per tribù.” (De Francisci, 1968).
Il giurista Giuliano, vissuto durante la seconda metà del II sec. d.c., riconosce che la fonte di legittimazione dell’auctoritas è comunque la volontà del popolo, che detiene la potestas a titolo originario e legifera attraverso la consuetudine. “Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis? quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio legislatoris, sed etiam tacito consensu per desuetudinem abrogentur.” (D.I,3,32 – Iulianus LXXXIV digestorum) Traduzione: “non è senza motivo che viene mantenuta ed osservata la consuetudine di antica data. Infatti, giacché l’efficacia vincolante delle leggi nei nostri confronti si fonda sul fatto che esse sono state introdotte per volere popolare, per lo stesso motivo ed a ragione anche ciò che il popolo ha approvato senza l’emanazione di alcun provvedimento scritto avrà efficacia vincolante nei confronti di tutti noi che cosa importa, infatti, se il popolo dichiara la sua volontà con comportamenti concludenti anziché con comportamenti formalizzati? Con fondatissimo motivo è stato quindi anche accolto il principio per cui le leggi vengono abrogate non solo per voto del legislatore, ma anche per consenso tacito, attraverso la desuetudine.”

4. Auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui – Ottaviano Augusto, Res Gestae. Alcuni autori come Vellerio Proculo (II,89, 3 prisca illa et antiqua rei publicae revocata) scrissero che Augusto con le riforme del 27 a.c. volle una restaurazione del regime repubblicano e che la sua posizione costituzionale poteva essere determinata in conformità ai principi dell’antico diritto pubblico repubblicano, ma auctoritate omnibus praestitis implica il riconoscimento ad Augusto di una volontà preminente e decisiva rispetto a tutti della sua persona, che non è più umana ma si apparenta a quella della divinità. L’epiteto di Augustus equivale a “colui che è sacro per designazione divina”. L’auctoritas di Augusto si converte in una somma di poteri giuricamente ricosciuti al princeps che contrapponendosi a potestas costituisce il parallelo dell’altro doppio concetto imperium maiestasque populi Romani. La posizione assunta dall’auctoritas di Augusto è licenziata con la cura et tutela rei publicae, concetto già sorto a proposito della posizione assunta da Pompeo e Cesare alla fine della repubblica. Il diritto-dovere di tutela e difesa della repubblica, per i suoi limiti incerti, non era una vera e propria potestas (quale fonte di legittimazione del potere congiunta agli auspici), ma un meccanismo di attuazione (auto legittimazione) dell’auctoritas del princeps che gli consentiva la possibilità di imporsi, per fini di difesa e di tutela, a tutti gli organi della costituzione nonché, con Vespasiano (lex de imperio Vespasiani), di farsi conferire una volta per tutte i poteri necessari per l’adempimento del compito. La concessione decennale di questa cura et tutela, ma poi successivamente prorogata, pose le condizioni per il sorgere di una vera e propria monarchia: il principato. Dione Cassio (LIII, 12, 1 ss.) ritiene che, in forza della seconda concessione, Augusto assunse il governo di tutte le provincie munite di truppe e conseguentemente il comando dell’esercito, cioè un imperium militare esclusivo, virtualmente illimitato e infinito, ben diverso dal primitivo imperium consolare della repubblica, senza rispetto dell’annualità e della collegialità, nella sostanza assunse una sorta di imperium proconsolare (Mommsen). Nel 24 a.c. con la solutio Augusto veniva esentato dall’osservanza delle leggi che potessero limitare la sua attività (De Francisci, Ed. Bulzoni, 1968). A mezzo dunque di una serie di concessioni legalmente deliberate dal Senato e dal popolo, gli organi della vecchia costituzione repubblicana erano ormai privati di ogni possibilità di azione e si era venuta foggiando la figura del princeps in cui erano accentarti tutti i poteri per la direzione dello Stato. Durante il periodo del principato l’imperium è senz’altro da intendere nel senso generale di potere autocratico (auctoritas) e non più in quel denotato ristretto del comando militare, proprio della tradizione repubblicana (Dario Mantovani, 2008).

5. Quod principis placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat. – Ulpiano, (D. 1, 4, 1 pr.). Da notare che mentre Ulpiano e Giustiniano (Deo auctore) usano rispettivamente i termini conferat e traslata che implicano una cessione definitiva della potestas populi Romani ossia una volta per tutte; Gaio invece nel riportare la medesima di Ulpiano usa il termine concessit che implica invece il conferimento della potestas di volta in volta (v. note 12 e 13)

6. Utique quaecumque ex usu rei publicae maiestatiteque divinarum humanorum, publicarum privatarumque rerum esse consebit, ei agere facere ius potestasque sit, ita uti divo Augusto, Tiberioque Iulio Cesare Augusto, Tiberioque Claudio Caesari Augusto Germanico fuit.lex de imperio Vespasiani (II, 17-20). Questa concessione licenziata sempre dalla cura et tutela integrava, oltre ai poteri proconsolari decennali già concessi ad Augusto quali il diritto di pace e di guerra nonché un vastissimo potere discrezionale che era l’espressione concreta del primato dell’imperatore in qualunque contingenza in campo interno, anche il diritto di concludere trattati (foedera) con gli altri Stati, che riguardava la politica estera (De Francisci). Con la lex de imperio Vespasiani il princeps aveva definitivamente consolidato sulla sua persona i tre poteri che caratterizzavano il potere imperiale: la tribunicia potestas, l’imperium proconsulare ed il pontificato massimo. Per l’indicazione antica di “Lex de auctoritate Vespasiani” rispetto alla denominazione comunemente invalsa cfr. Gianfranco Purpura, Sulla tavola perduta. della Lex de auctoritate Vespasiani.

6bis. Atto formale, risalente all’età etrusca, attraverso il quale il magistrato veniva investito (legittimato) dell’auctoritas (imperium), alla presenza dei 30 littori che rappresentavano le trenta Curiae: dieci in ognuna delle originarie tre tribus: dei Latini (Ramnes), dei Sabini (Tities) ed degli Etrusci (Luceres). Quirites è il nome antico dei romani che deriverebbe, secondo Giustiniano (I, 1.2.2), da Quirinus il cognome di Romolo. S.P.Q.R. Senatus Populus Quirites Romani.

7. Secondo alcuni (De Francisci, Roma 1968, Mario Bulzoni Ed.), la lex curiata non sarebbe altro che un cerimoniale per cui il console, dopo avere ricevuto gli auspici, presentava al popolo una dichiarazione solenne rispetto alla quale il consenso o il dissenso del popolo stesso era indifferente. Tuttavia è stato anche evidenziato che secondo la dottrina romana il console prima della cerimonia di cui alla lex curiata non poteva occuparsi della res militaris e che i suoi atti, ove fosse mancata questa cerimonia solenne davanti al popolo, sarebbero stati considerati viziati, come quelli di un console che non avesse preso gli auspici. (Liv. V, 52, 16; Cic. de lege agr. II, 12, 30; Phil. V, 16, 45). Ma questa eccezione poteva essere sollevata o dagli auguri o dal senato, come avvenne nel 217 a.c. (Liv. XXII, 1, 5). Il vizio assumeva solo il carattere di una violazione di norme religiose, di cui il senato e i sacerdoti si consideravano custodi. Comunque il principio secondo cui consuli, si legem curiatam non habet, attingere rem militarem non licet, è un principio che risale alle origini, quando una serie di solennità religiose o quasi religiose accompagnavano l’assunzione del potere. Non si dimentichi che sulla fine della repubblica vi fu chi sostenne che la lex curiata, ossia questa sorta di investitura popolare, non era indispensabile per l’esercizio dell’auctoritas (Cic. Att. I, 9, 25; IV, 16, 18; Quint. frat. III, 2, 3). Dalle originarie assemblee dei comitia curiata si passò, in seguito alla riforma census e la divisione in centuriae, ai comitia centuriata. Gradualmente questi ultimi persero di importanza in favore dei comitia tributa. In un passo di Gellio, tratto dalle Noctes Atticae (15.27.5), si specifica la modalità della distribuzione della popolazione nelle ripartizioni politiche: Item in eodem libro hoc scriptum est: «Cum ex generibus hominum suffragium feratur, “curiata” comitia esse; cum ex censu et aetate “centuriata“; cum ex regionibus et locis “tributa“»

8. Muovendo dal versetto biblico (Isaia, cap. LXVI, v.6): Vox populi de civitate, vox de templo, vox Domini reddentis retributionem inimicis suis, riassunto nel conosciutissimo motto latino vox populi, vox dei, comparso sulla fine dell’VIII secolo per la prima volta nel Capitulare adminitionis ad Carolum – cap. XI di Alcuino di York (nei Miscellanea del Baluzio, to. I, pag. 376, Paris 1678: Nec audiendi qui solent dicere Vox populi, vox Dei, cum tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit), si potrebbe congetturare che la lex regia tramandasse nel diritto romano il precetto per cui il volere della divinità si manifesta in natura anche per mezzo della voce del popolo, sicché il volere divino (auspici) per essere validamente interpretato e confermato doveva manifestarsi anche attraverso la voce del popolo, personificata dalla potentissima dea Fama divinità annunciatrice e messaggera di Giove. Forse fu proprio per evitare implicazioni circa l’attendibilità della dea Fama quale reale messaggera di Giove che esisteva nel diritto romano un’antica norma che vietava il matrimonio fra un rappresentante dell’ordine senatorio e un’attrice. Giustino dispose che l’antico divieto fosse inoperante per rendere possibile il matrimonio del nipote; la disposizione venne poi ripetuta da Giustiniano nella Nov. 117 del 542 come provvedimento in favore delle donne di teatro (Appunti su Giustiniano e la sua compilazione, M.Bianchini, 1983, Torino Ed. Giappichielli). Virgilio nell’Eneide, il poema epico-celebrativo della discendenza di Augusto da Enea, per la prima volta cita la dea Fama come male (IV 169-167); ormai il divino non si manifestava attraverso la dea, che diventò anzi portatrice di diceria, ma si manifestava nella persona stessa dell’imperatore che era celebrata nel circo, nei busti marmorei, nei trionfi, nelle effigie sul diritto – le virtù, le attività e le opere sul rovescio – delle monete, che solo formalmente emesse dal senato (legenda SC senatus consultum), venivano sparse dalle militie negli angoli più reconditi dell’impero insieme alla propaganda imperiale (reddite que sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo, Vangeli, Matteo 22, 21; Marco 12, 17; Luca 20, 25) . Giulio Cesare fu la prima persona vivente che ottenne dal senato il privilegio di apporre la propria effige sulla monetazione romana repubblicana che iniziò nel 289-269 a.c. Al poeta Publio Ovidio Nasone (43 a.c. – 17 d.c.), canzonare nell’Ars amatoria (1 o 2 d.c.) i fasti fasulli di circhi e teatri, mettere a nudo propaganda e realtà del principato in genere, ma soprattutto sbeffeggiare la divinità di Augusto, costò la triste relegatio a Tomi in Romania, attuale Costanza (Tristia, II, 1, 207 “carmen et error” – cfr. Irma Ciccarelli, 2003, Edipuiglia).
Solo a cavallo tra i secoli XI e XII, Eadmerus di Canterbury (Vita Oswaldi, PL 159, 777a: Intonat vox populi, ut dubio procuro attestareris Scripturae vocem populi vocem esse Dei) a proposito dell’elezione di Oswaldus ad arcivescovo di York, porterà nuovamente a sostegno la vox populi per dire che l’acclamazione popolare comporta che essa sia sostenuta dalla volontà divina (Sulla genesi di alcuni proverbi, Renzo Tosi, Uni. Bologna). E’ possibile che il monito di Alcuino a Carlo Magno, con l’accezione negativa del motto Vox populi, vox dei, sia da mettere in relazione con una tendenza politica dell’autorità imperiale per ottenere la legittimazione del potere dal popolo anziché dal papato, poi sopita, ma che emergerà in seguito con i falsi privilegi, noti come “falsi ravennati”, con cui si sosteneva l’idea di una definitiva alienazione della potestas del popolo romano in favore dell’imperatore; in questo senso la contestazione tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit, potrebbe riferirsi a Ponzio Pilato che lasciò al popolo corrotto la scelta (poi rivelatasi sbagliata) tra Gesù o Barabba. Nel nel XIII secolo, sulla vicenda così si espresse Jacopone da Todi nella lauda drammatica Donna de Paradiso (25,30): “O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch’eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato». «Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo la nostra lege contradice al senato». Ma l’espressione tumultuositas volgi semper insania proxima sit in riferimento al vox populi, vox Dei (letto come precetto attraverso cui si statuiva già dall’antichità la credenza per cui l’acclamazione pubblica confermava in concreto un volere divino di assunzione dell’autorità) potrebbe avere un’attinenza con la rivolta del 532 che prese il nome di Nika e che minacciò la stabilità del trono di Giustiniano prendendo l’avvio dall’ennesimo scontro tra le due fazioni del circo: gli Azzurri e i Verdi, che rappresentavano in Costantinopoli interessi contrapposti sul piano politico, sociale e religioso; quando le due fazioni si ritrovarono riunite per chiedere la grazia di due di loro (un Verde ed un Azzurro) che si erano rifugiati in una chiesa per scampare alla repressione del praefectus urbi, l’agitazione assunse carattere politico; la folla eccitata dette fuoco al palazzo del prefetto, poi si diresse verso il palazzo imperiale e tumultuando minacciosamente chiese la destituzione del prefetto, ma anche di due funzionari (Triboniano e Giovanni). L’agitazione era ormai degenerata in insurrezione; la folla riunita nel circo proclamò imperatore, suo malgrado, Ipazio continuando l’assedio al palazzo imperiale. Teodora prese in mano le redini della situazione scuotendo l’imperatore Giustiniano e sollecitando un pronto intervento; l’azione di Teodora sortì i suoi effetti ed i generali Belisario e Mundo uscirono in forze dal palazzo e bloccarono le due entrate del circo, mentre il generale Narsete riguadagnava il favore da parte degli Azzurri; la folla ormai divisa e colta di sorpresa venne sistematicamente massacrata: le fonti parlano di 30.000 morti; i giochi nel circo vennero sospesi per molto tempo (Appunti su Giustiniano e la sua compilazione, M.Bianchini, 1983, Torino Ed. Giappichielli).

9. Le monete degli imperatori. Raffaele Araneo, Ferrara, 2009.

9bis. Sull’esenzione dall’osservanza delle leggi (solutio) accordata all’imperatore (princeps), le Institutiones di Gaio insegnavano ed il Digesto avvertiva: “Princeps legibus solutus est: augusta autem licet legibus soluta non est, principes tamen eadem illi privilegia tribuunt, quae ipsi habent” (D., I, de legibus 3, 31 – Ulpianus 13 ad l. iul. et pap.). Una lex imperii relativa alla solutio legibus del princeps è richiamata da un’epistula (C. 6.23.3) di Alessandro Severo (208 – 235): “Licet enim lex imperii sollemnibus iuris imperatorem solverit, nihil tamen tam proprium imperii est, ut legibus vivere” (Mario Pani, L’imperium del principe). La legibus solutio era un istituto del diritto romano per cui il Senato poteva stabilire che in casi eccezionali una legge in vigore non si applicasse a un caso specifico. Questa dispensa per i magistrati dalla stretta applicazione di una legge, o per un individuo da un requisito legale, venne adottata come misura eccezionale nei casi di urgenza, ma questa regola non venne sempre osservata e non mancarono gli abusi. Fù così che nel 67 a.c. con la Lex Cornelia de legibus solvendo venne limitato l’uso delle deliberazioni senatorie di legibus solvendo, per la cui validità si rese necessaria la presenza quorum di almeno duecento senatori e che il decreto del Senato doveva essere successivamente confermato dal voto dell’assemblea popolare. Il diritto del Senato di garantire la legibus solutio fu esercitato agli inizi del Principato. [Cfr. anche nota 4].
L’imperatore romano d’oriente Teodosio II (408 – 450) egualmente affermò con la Digna vox, al pari di Valentiniano III per l’occidente, essere opportuno che l’imperatore si professasse legibus allegatus, quindi non più legibus solutus.
Digna vox maiestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri: adeo de auctoritate iuris nostra pendet auctoritas. Et re vera maius imperio est submittere legibus principatum. Et oraculo praesentis edicti quod nobis licere non patimur indicamus“. Traduzione: “È – dice Valentiniano III – dichiarazione degna di un regnante che il principe si confessi vincolato alla leggi: noi siamo infatti tanto più autorevoli quanto più lo è il diritto. E per verità è prova di grande potere il sottomettere il principato alle leggi: e con l’oracolo del presente editto noi indicheremo ciò che non tolleriamo ci sia lecito”.. (Tratta da “Dal costituzionalismo medievale al costituzionalismo moderno“, Diego Quaglioni). La Glossa ponendo a raffronto i due diversi principi, quello del Digesto e quello del Codex, soffermandosi su quell’indicamus si orientò a dire che se i sudditi devono osservare le leggi ex necessitate, il monanarca lo deve unicamente ex volontate, confezionando così il concetto di un potere qualitativamente distinto da tutti gli altri, che sarebbe servito da modello ai teorici dello Stato assoluto: Bodin (1529 – 1596), Hobbes (1588 – 1679), Filmer (1588 – 1653), Bousset (1627 – 1704). (Cfr. Luisa Bussi, Il principio del rex sub lege, in Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana n. 10 – 2011/2012).

10. Odoacre di origine scira e appartenente alla stirpe degli Eruli, magister militum dell’esercito romano, nel settembre dell’anno 476 d.c. entrò a Ravenna e depose l’Imperatore romano d’Occidente Romolo Augustolo confinandolo a Napoli presso il Castellum Lucullanum (attuale Castel dell’Ovo) e garantendogli una rendita annua di 6000 solidi aurei. Inviò le insegne imperiali all’Imperatore d’Oriente Zenone, secondo le regole costituzionali da applicarsi per i casi di vacanza dell’Impero d’Occidente. Il 23 agosto 476 a Pavia, Odoacre era stato proclamato rex gentium dalle sue militie, ossia re delle popolazioni straniere (germaniche) stanziate in Italia; non si sostituì al deposto imperatore costituendo un regno indipendente, ma si considerò un magistrato supremo per l’Italia, delegato o vicario (patricius) dell’Imperatore di Oriente (Bellomo, 1991, Catania-Roma). La posizione costituzionale di Odoacre e del suo regno rispetto all’Impero romano fu simile a quella che aveva assunta nel sud della Francia e poi in Spagna il Regnum Visigothorum. Il regno dei Franchi del ramo salico prima, della dinastia merovingica e dei carolingi poi, apparirà invece con i caratteri di uno stato assoluto, teocratico e patrimoniale, dove il patrimonio del re – qui indistinto tra quello pubblico dell’erario (Aerarium populi Romani e militare) e quello privato della “corona” (Fiscus Caesaris) – si trasferisce per successione ereditaria; esso si porrà sia come il centro europeo alternativo più potente rispetto a Bisanzio sia come il baluardo più robusto contro il fanatico dilagare degli arabi, che saranno definitivamente sconfitti nel 732 a Poitiers da Carlo Martello (Bellomo).

11. Duo quippe sunt quibus regitur mundus, auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas – Gelasio I (Epist. 8 all’imperatore Anastasio, PL 59, 42).

12. Deo auctore nostrum gubernantes imperium, quod nobis a caelesti maiestate traditum est – (C. 1, 17, 1). Sempre nella costituzione Deo auctore è fatto riferimento ad una antica lege regia in virtù della quale ogni diritto ed ogni potestà furono trasferiti (traslata) dal popolo romano all’imperatore: Cum enim lege antiqua, quae regia nuncupabatur, omne ius omnisque potestas populi Romani in imperatoriam traslata sunt potestatem – (C. 1, 17, 1, 7).

13. Anche nelle Institutiones di Gaio, opera composta nel II secolo (168 – 180), si fa riferimento ad una lege regia per cui l’origine dell’autorità imperiale risiede in un preciso atto in cui si manifesta la volontà del popolo romano: cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem concessit – Gaio (Inst. 1, 2, 6).

14. IV Concilio di Toledo del 633. Secondo un capitolare attribuito a Ludovico il Pio nell’816, in cinque ipotesi era legittimo per il suddito sottrarsi al rapporto con il sovrano: 1. quando il re avesse preteso servizi non previsti; 2. quando avesse congiurato contro la vita del suddito; 3. quando si fosse avventato contro quest’ultimo a spada sguainata; 4. quando avesse commesso adulterio con la moglie del vassus e 5. quando non l’avesse difeso. Le cinque fattispecie corrispondono in larga parte a quelle previste dall’Editto di Rotari del 643 per l’emancipazione del figlio. Il rapporto vassallatico aveva dunque una valenza etico-familiare, in linea con la concezione franco-germanica dello Stato e della Sovranità come proprietà privata che si trasmette e si spartisce tra gli eredi. Lo Stato – diversamente dalla tradizione pubblicistica romana – appartiene al sovrano, alla sua famiglia ed al ceto dei nobili; diviene un fatto patrimoniale (derivante dalla proprietà fondiaria) che tiene implicitamente indistinte le nozioni di diritto pubblico e quella di diritto privato. In questi affari il “popolo” dei sudditi e dei servitori del sovrano non aveva letteralmente “voce in capitolo”.

14bis. Il documento più antico rimasto sulla vita economica degli abitanti della provincia Venetia, prima dell’invasione dei Longobardi, è la famosa lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi delle Venezie del 537. Cfr. Storia economica d’Italia. Il Medioevo. (Gino Luzzato, Ed. Sansoni, Firenze, 1963)

15. Società e istituzioni in Italia dal medioevo agli inizi dell’età moderna. Manlio Bellomo, Catania-Roma, 1991.

16. Iure regnum sacerdotio subiacebitOnorio di Autun (Summa gloria, c.4).

17. Rex in regno suo est imperator, superiorem non recognoscens. Questo antico principio giuridico è stato utilizzato da Marino da Caramanico (? – 1288 ca) per analizzare nel Proemio il problema dello Stato e della plenitudo potestastis. A Baldo degli Ubaldi (1327 – 1400) è dovuta la formulazione definitiva: “Rex in regno suo est imperator regni sui” (In primam Digesti veteris partis Commentaria, Venetiis 1597, ad lib. I Dig., I, 9).

18. Capitolare di Quierzy (18 giugno 877). Constitutio de feudis (Cremona, 28 maggio 1037). Chacuns barons est souverains en sa baronie (Beaumanoir, Cout. de Clerm. en Beauv., § 1043, Amédée Salmon).

19. Considerazioni sulla ‘lex regia de imperio’ (secoli XI-XIII) – Berardo Pio, 2011.

19bis. “Porro secularis officium potestatis interdum et in quibusdam per se, nunnumquam autem et in nonnullis per alios, exsequi consuevit.” (Epistularium Innocentii III, Lib. V, Cor. VI, 3). La Decretale enuncia la classica dottrina del potere diretto ed indiretto della Chiesa, e fa dei Principi elettori altrettanti esecutori di una volontà che li trascende e che siede in Roma (“Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Gioacchino Volpe, 1997, pag. 81). Secondo alcuni (Francesco Calasso, I glossatori cit. di G.Silvestri, 1996) forse a digiuno delle Res Gestae di Augusto, la Decretale segnerebbe nel medioevo un punto di svolta fondamentale nella formazione dell’idea relativistica di sovranità.

20. De origine iuris (Melfi 1231). Nella costituzione l’imperatore ricorda il trasferimento del diritto di legiferare e del comando supremo (imperium) operato – una volta per tutte, s’intende – dai Quiriti in favore del principe mediante la Lex regia ed individua la ragione di tale translatio nella necessità di riunire nella stessa persona l’origine e la difesa della legge, in modo che alla giustizia non manchi la forza e alla forza non venga meno la guida della giustizia. (v. nota 12).

21. Dicitur enim traslata, id est concessa, non quod populus omnino a se abdicaverit eam – Azzone, Summa Codicis (I, 14, 8).

22. L’imperatore legifera non come scelto da Dio ma come quello cui popolo hoc permissum estInrnerii Summa Codicis, (I, 14, 3).

23. Principatuum institucio (potestas) … ab umana mente immediate provenit, licet a Deo tamquam a causa remota – Marsilio da Padova (Defensor pacis, I, IX, 10).

24. Certum est reges potestatem suam accipere ab ecclesiaTommaso Cantuariense (Epistola LXIV).

25. Ecclesia romana, cuius est regna transferre et reges de sua sede deponereEl Alvario Pelagio.

26. Benvenuto da Imola. Della storia d’Italia antica e moderna, Cav. Luigi Bossi, Milano, 1821.

27. La storia attesta l’abilita’ dei templari nella gestione finanziaria. Grazie a lasciti, donazioni ed altre liberalita’ i Cavalieri del Tempio divennero presto facoltosi proprietari di terre e patrimoni. I continui viaggi in Terrasanta, le franchigie di cui godevano per la diretta dipendenza dal papa, avevano fatto si che la loro flotta diventasse la più veloce e sicura del Mediterraneo. I templari dietro compenso organizzavano il trasporto dei pellegrini e dei loro beni in Terrasanta. Molti potenti dell’epoca, vista l’affidabilità acquisita dall’Ordine, gli affidarono sia la gestione che la custodia nelle loro fortezze di tesori ragguardevoli. Per alleviare i pellegrini durante il viaggio in Terrasanta dal peso delle monete d’oro, o per agevolare i mercanti che durante i viaggi temevano assalti di briganti o altri rischi, inventarono le “lettere di credito” o “lettere di cambio” (la moderna moneta bancaria: gli assegni). Il pellegrino in partenza – anziché viaggiare per l’Europa con pesanti e pericolosi fardelli – depositava le monete presso l’Ordine dietro il rilascio di una ricevuta che esibiva al suo arrivo in Terrasanta per ritirare il corrispondente controvalore di monete d’oro o d’argento presso un’altra fortezza dell’Ordine. In sostanza, la leggera e disprezzata carta (che da poco aveva sostituito la pergamena) circolava al posto del pesante e pericoloso metallo. Col tempo i templari si accorsero che solo una parte dei valori depositati presso di loro veniva materialmente riscossa. Ciò accadeva perché i creditori – per comodità e per l’affidabilità acquisita dall’Ordine nell’onorare la restituzione dei depositi – accettavano in pagamento le ricevute di deposito al posto delle monete d’oro. Nacque cosi’ il proto-tipo della carta moneta. Non solo, i templari iniziarono a prestare dietro compenso (interesse), oltre al patrimonio dell’Ordine, anche quella parte di monete d’oro depositata dai terzi che giaceva improduttiva nelle loro fortezze. Così, nel Regno di Francia di Filippo IV detto il bello, circolavano come mezzi di pagamento oltre alle monete d’oro e d’argento coniate dalla Zecca del Regno, anche le “lettere di credito” emesse dall’Ordine, il cui controvalore complessivo però non corrispondeva interamente alle monete metalliche depositate nelle loro fortezze, ma solo ad una frazione di esse. “Nel 1306, in occasione d’una svalutazione della moneta, insorgono gli artigiani parigini, e Filippo il bello sopprime temporaneamente tutte le corporazioni” (cfr. J.Le Goeff, 1967, Feltrinelli, Milano). A quel tempo il “moltiplicatore monetario” non era ancora concepito come tale, sicché i Templari furono accusati di negromanzia. L’alchimia di Alberto Magno, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo era l’antica arte “magica” di trasmutare i metalli in oro. Papa Giovanni XXII (1316-1334) emanò una bolla con cui si vietava la pratica alchemica, parificandola alla magia, alla stregoneria e alla negromanzia, definendo gli alchimisti rei «de crimine falsi». Cfr. Alessandro Ortis, InStoria n. 40 – aprile 2011.

28. “Il legislatore, o la causa prima ed efficiente della legge, è il popolo, l’intero corpo dei cittadini o la sua parte prevalente mediante la sua scelta o volontà espressa nell’assemblea generale dei cittadini“. Marsilio da Padova, Defensor pacis (I, XII, 3). L’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo. Ciclo di affreschi (1338 – 1339) di Ambrogio Lorenzetti. Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena.

29. Secondo alcuni giuristi del tempo, il rapporto tra ius commune dell’Impero universale e ius proprium degli enti politici minori si basava sulla concessione (permissio) imperiale. Bartolo fonda invece tale rapporto non più sul concetto di permissio ma di iurisdictio, ossia di ordinamento autonomo. Ogni iurisdictio si dà da se stessa le proprie norme, é sibi princeps (Cfr. Guido Fassò, Laterza, 2001).

30. Cfr. Cortese, Il Diritto, vol. II, pp. 433-434; in Dal reato alla sentenza: il processo criminale in età comunale, Elena Maffei (2005).
Nel 1512, caduto il regime repubblicano di Pier Soderini, Niccolò Machiavelli (di scuola repubblicana), è confinato per un anno. Nel 1513, il rientro dei Medici (Giuliano) a Firenze peggiora la sua situazione e dopo essere stato anche imprigionato e torturato, si ritira nella villa dell’Albergaccio, la piccola tenuta presso San Casciano ed ivi celebrerà (o dovrà celebrare) in breve tempo nell’opera “Il Principe” la signoria (tirannia) dei mercanti-banchieri, teorizzando il principato assoluto del principe illuminato come forma di governo ideale. Nel 1527, dopo la seconda cacciata dei Medici da Firenze, Machiavelli sperò di riottenere la sua carica, che gli venne tuttavia negata in quanto fu accusato di avere mantenuto rapporti con la signoria medicea. La delusione fu grande. Il controcanto delle sue famose pagine politiche de “Il Principe” tuttavia si può davvero leggere nel Machiavelli “a teatro”, dove con la “Mandragola” (pubblicata solo nel 1524) si evidenzia lo sproporzionato e comico contrasto che scaturisce tra logica razionale e perfezione dell’agire (politico), da una parte, motivi abietti e banalità dello scopo che si vuole raggiungere, dall’altra. (Cfr. Mandragola – Clizia, Ezio Raimondi e Gian Mario Anselmi, 2003, Ed. Mursia). Dagli scritti di Machiavelli politico e drammaturgo s’intravedono gli atteggiamenti di due personalità, e da qui l’avvicinamento all’aggettivo “ambiguo” che – secondo i moderni dizionari – è uno dei sinonimi ricorrenti di “machiavellico”.

31. Quis dedit populo romano potestatem eligendi imperatorem, nisi ipsum ius divinum et naturale? – Nicolò Cusano.

32. Principes electores… repraesentant principes et populum Germaniae, Italiae, et aliarum provinciarumGuglielmo di Ockham (Octo quaestiones).

33. Constantinus alienare non poterat imperii dignitatem… si ergo alique dignitates per Constantinum essent alienate, scissa esset tunica inconsultis – Dante, De Monarchia, (III).

34. Senza l’intervento del marcante-banchiere di Augusta, Carlo V non avrebbe mai raggiunto la corona imperiale. Cfr. Il sollecito di Jacob Fugger (aprile 1523)La Vostra Maestà Imperiale sa, senza dubbio alcuno, quanto i miei cugini e io siamo sempre stati fin qui sottomessi al servizio della prosperità e dell’innalzamento della Casa d’Austria, e come siamo stati condotti, per compiacere Sua Maestà vostro nonno, l’imperatore Massimiliano, e procurare a Vostra Maestà la corona romana, a impegnarci nei confronti dei principi che non volevano accordare fiducia e credito a nessun altro che a me; come, ancora, noi abbiamo anticipato ai commissari di Vostra Maestà e per lo stesso scopo una importante somma di denaro, che noi stessi abbiamo dovuto in gran parte prendere in prestito dai nostri amici. È poi notorio e verificato che, senza il mio aiuto, Vostra Maestà Imperiale non avrebbe mai potuto ottenere la corona romana, cosa che posso provare con scritti di mano dei commissari di Vostra Maestà. Non ho avuto in vista il mio interesse personale, perché, se avessi voluto abbandonare la Casa d’Austria e favorire la Francia, avrei ottenuto molto denaro e beni, come mi era stato proposto. Quale danno ciò avrebbe provocato per Vostra Maestà Imperiale e per la Casa d’Austria, il profondo giudizio di Vostra Maestà vi permetterà di valutare.” (Sollecito di Jacob Fugger, in R. Ehrenberg, Le Siècle des Fugger, Serpen, Paris 1955, p. 48).

35. Summa in cives ac subditos legibusque soluta potestasJean Bodin, De republica (I, 8). In lingua francese: Les six livres de la République (1576).

35a. “E’ accaduto più volte che il pubblico sia stato sorpreso dal crollo clamoroso di grandi banche o dall’improvviso rovescio di fortuna di piccole banche locali. Questi avvenimenti provocano lunghe crisi del credito, che si ripercuotono sulla economia di tutto un paese e suscitano disagio in ogni categoria sociale. In Italia sono rimaste memorabili le crisi bancarie del 1893, del 1921, del 1933 con la culminazione della creazione dell’IRI che disincagliò le banche mediante il soccorso straordinario dell’istituto di emissione (ndr. banca centrale). L’analisi storica dei fatti ha documentato che siffatte crisi traggono origine da un errore di condotta in cui le banche incorrono con facilità quando sono lasciate libere di agire esclusivamente secondo il proprio discernimento. L’errore consiste nella illusione di potersi sottrarre alla rigorosa osservanza della correlazione temporale fra le operazioni di impiego e quelle di provvista. Le crisi sopraggiungono quando questa elementare norma di prudenza viene sistematicamente violata. La storia dei crolli bancari è contrassegnata dall’errore ricorrente di investire i depositi a breve scadenza in operazioni di lunga scadenza. Una lunga esperienza ha provato che le banche di deposito facilmente soggiaciono alla tentazione di trasformarsi in “banche d’affari”, che assumono con i propri clienti rischi incompatibili con la sicurezza a cui aspira chi deposita denaro in banca.” (Giuseppe Di Nardi, 1957)

35bis. Rivoluzioni silenziose: 
l’evoluzione costituzionale 
della Gran Bretagna. Pag. 126 e segg. (Ugo Bruschi, Ed. Maggioli, 2014). Cfr. anche Banking on the state, BIS Review 139/2009.

35ter. Il Re D’Inghilterra, Guglielmo III, così esortò i parlamentari nel suo ultimo discorso dal trono: “Abbiate cura del credito pubblico, che non può essere preservato se non mantenendo sacra la massima secondo cui coloro che hanno fiducia nei titoli garantiti dal parlamento non potranno mai perderci.” (PH V 1330) “To take care of the public credit, which cannot be preserved but by keeping sacred that maxim, that thay shall never be looser, who trust to a parlamientary security.”
Con la promulgazione della legge n. 4671 del 17 marzo 1861, si fa coincidere l’anniversario dell’Unità d’Italia. Il bilancio dello Stato era costantemente in deficit per l’inadeguatezza del sistema tributario, la scarsità di attività economiche e per le ingenti spese del settore militare. Tuttavia, il sistema bancario dell’appena sorto Stato italiano non si articolò da subito su una banca centrale. Gli istituti di emissione degli Stati preunitari non vollero rinunziare al privilegio di stampare carta moneta che comportava notevoli utili, in favore della sola Banca Nazionale Sarda. Sicché vi furono in Italia ben cinque (poi sei) istituti di emissione: la (i) Banca Nazionale Sarda (poi del Regno D’Italia), la (ii) Banca Nazionale Toscana e la (iii) Banca Toscana di Credito (che nel 1893, in seguito allo scandalo della Banca Romana, si fusero nella Banca Nazionale del Regno D’Italia per formare la Banca D’Italia), il (iv) Banco di Napoli ed il (v) Banco di Sicilia, che conservarono il diritto di emissione della carta moneta sino al 1926. A questi cinque istituti si aggiunse nel 1870, con la presa di Roma (breccia di Porta Pia): la (vi) Banca Romana, liquidata nel 1893 dopo essere stata protagonista di un gravissimo scandalo (c.d. della Banca Romana) che portò alla luce la commistione tra politica, banche e affari. Il predominio nel sistema bancario italiano fu assunto dalla Banca Nazionale con il Regio decreto 2873 del 1 maggio 1866, quando le fu concesso dal Re a fronte di un prestito (art.1), il “privilegio della inconvertibilità”: il c.d. corso forzoso (art.2), ossia il venir meno dell’obbligo (solutio) per la Banca Nazionale di convertire, su richiesta del portatore, la carta moneta stampata (entro un limite di importo: banco-note) in monete di metallo prezioso (“danaro contante”) ed a vista, seguito dalla conferma (all’art.3) dell’obbligo di accettare in pagamento le banconote emesse anche dalle altre banche di emissione, in luogo di monete metalliche (c.d. corso legale, oggi regolato dall’art. 1277 del codice civile), ed a cui fu imposto l’onere (all’art.5) di immobilizzare in massa metallica 2/3 del controvalore nominale della carta circolante (c.d. riserva frazionaria). La Banca Nazionale assunse così la funzione di banca centrale, che conservò anche l’onere (ridotto) della riserva frazionaria (rapporto tra riserva in monete metalliche e carta in circolazione) già fissato in ragione di 1/3, dall’art. 11, della prima legge bancaria “piemontese” n. 1054 del 9 luglio 1850. Nel 1889, principalmente a causa degli eccessivi prestiti concessi nel settore edilizio per la ricostruzione di Roma e Napoli, alcune banche si trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche autorizzate. In seguito all’indagine promossa dal ministro dell’agricoltura Miceli, risultò che la Banca Romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie di biglietti falsi (duplicando i numeri di serie della cartamoneta già stampata), inoltre fu messo in evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo. Sulle macerie di tale scandalo, il governo Giolitti fondò con la legge n. 449 del 10 agosto 1893 la Banca D’Italia, a cui fu affidata la liquidazione della Banca Romana. (Cfr. L’italia dall’unità al nuovo secolo, Vincenzo Giura).
Negli Stati Uniti D’America il sistema bancario ebbe un’evoluzione variegata dovuta al conflitto tra hamiltoniani (federalisti) e jeffersoniani (nazionalisti). Gli hamiltoniani dapprima strapparono al Congresso due provvedimenti: del 25 febbraio 1791 e del 2 marzo 1791 con l’approvazione dello statuto della Banca degli Stati Uniti (1791 – 1811), che poi allo scadere i jeffersoniani ne impedirono il rinnovo. Ad una seconda “Banca degli Stati Uniti” (1816 – 1836) toccò la stessa sorte. Dopo di allora, mentre alcuni Stati ammettevano una libera attività bancaria (chiunque poteva fondare una banca), altri gestivano banche di proprietà statale ed altri ancora cercarono di impedire del tutto l’attività bancaria. Durante la guerra civile americana (1861 – 1865), come provvedimento di guerra, il Congresso istituì il National banking system che permetteva la coesistenza di banche federali e statali. L’imposizione da parte del Congresso di una tassa discriminatoria sull’emissione di carta moneta, costrinse molte banche statali a trasformarsi in banche nazionali. Il sistema bancario statale e federale a capitale azionario subiva comunque una forte restrizione: l’apertura di filiali, ad esempio, era proibita e le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale nonostante l’ingente volume di import-export. La crisi bancaria del 1907 (Bankers’ Panic), deflagrata in seguito alla caduta della banca “Knickerbocker Trust“, che aveva dilapidato i fondi per manipolare i prezzi del mercato del rame, convinse il Congresso a varare la riforma del sistema bancario del 23 dicembre 1913 e sorse così il Federal Reserve System (FED). (Cfr. Storia economica del mondo. II. Dal XVII secolo ai nostri giorni, Rondo Cameron – Larry Neal, Ed. Il Mulino, 2005).

36. Le souverain n’est tenu envers soi-même que par sa conscience. Dans les États monarchiques absolus les souverain est bien dans ces conditions. Dans le démocratie le souverain est formé de l’association de tous les citoyens… Ce souverain démocratique a tous les droits qui implique la souveraneté. – Emile Cossé (1830 – 1892).

37. Costituzione francese del 24 giugno 1793 (art. 26).

38. L’uomo come animale sociale. Cfr. Aristotele nel libro I della Politica. Ancora per Grozio (De iure belli ac pacis, 1625, Prolegomeni) l’uomo è «per natura» un essere razionale e sociale. Sofisti, cinici ed epicurei invece considerano il vivere socialmente e politicamente una convenzione che altera l’originario e naturale stato dell’umanità. È Hobbes il primo a contestare Aristotele affermando nel De cive (1641) che l’uomo non è socievole per natura, ma lo diventa in seguito a un ragionamento e a un calcolo di vantaggi. La sovranità popolare è vista anche come strumento concettuale per ottenere il blocco del regresso all’infinito nella ricerca del fondamento ultimo della sovranità e la legittimazione del potere concretamente esercitato dall’autorità costituita (Gaetano Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa declino e trasfigurazione di un concetto in Rivista diritto costituzionale n. 1, 1996, pag. 23).

39. Gaetano Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa declino e trasfigurazione di un concetto in Rivista diritto costituzionale n. 1, 1996, pag. 25.

40. Tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900 “il filone realistico della nascente scienza politica si interroga sulla natura e sul destino dei fenomeni degenerativi connessi al parlamentarismo e allo sviluppo della politica di massa: corruzione parlamentare, compravendita del voto, clientelismo e patronato degli uffici, trasformismo, politicantismo e bossismo, machine politics, sono ampiamente presenti nelle pagine dei maggiori scrittori politici dell’epoca, da Mosca a Ostrogorsky, a Pareto, a Max Weber, a Bryce” (v. Belligni, 1987).

40bis. Il Regio decreto 2873/1866 e la Legge 2872/1866 sono stati recentemente abrogati con i provvedimenti c.d. taglia-leggi (L. 246/2005; D.L. 112/2008; D.L. 200/2008) predisposti dal Ministro per la semplificazione (Calderoli) e non sono tra quelli ripristinati con il decreto salva-leggi (D.Lgs. 179/2009).
Ai fini del controllo Sovrano sulle attività bancarie, è importante apprendere quanto stabiliva dall’art. 11, R.D. 2873/1866: “Art. 11. Il Governo del Re ha la facoltà di vigilare sopra l’amministrazione degli Istituti di credito di cui si parla nel presente decreto, di riscontrare le loro operazioni, e di opporsi alla esecuzione delle deliberazioni e dei provvedimenti contrari ai loro Statuti, alle leggi ed agli interessi dello Stato.“.
In proposito dell’esercizio dei poteri sovrani sulle banche, il Senatore MAUROGONATO così si espresse nella discussione alla Camera dei Deputati sull’abolizione del corso forzoso, nei giorni 2 e 3 agosto 1868: “Limitare l’emissione (ndr. dei biglietti di banca) significa chiudere le porte della tipografia. In circostanze ordinarie sarebbe assurdo il voler limitare l’emissione dei biglietti. Allorquando i biglietti possono essere scambiati a vista (ndr. in monete metalliche), la natura stessa delle cose impedisce e raffrena l’audacia delle Banche, imperocchè l’affluenza dei biglietti che si presentano al cambio e la spesa necessaria per provvedersi del metallo bastano per ricondurre le Banche sulla retta via. Ma non è così quando regna il sistema del Corso Forzoso; allora la tentazione è troppo grande… Si potrebbe tuttavia sostenere che non vi era urgenza di proporre alcun provvedimento (ndr. di abolizione del corso forzoso), mentre consta che la Banca non aveva per conto proprio esagerata l’emissione, e d’altronde è in pieno vigore l’articolo 11 del decreto 1 maggio 1866 che dà al Governo i necessari poteri per impedire ogni atto contrario agli interessi dello Stato. Per altro la Commissione (di inchiesta sull’abolizione del corso forzoso) ha creduto opportuno presentare una legge (sull’abolizione del corso forzoso), ed io approvo non solo per i motivi che essa adduce, ma per un altro motivo più importante e costituzionale, imperocchè in tutti i paesi liberi l’argomento gravissimo delle Banche o dell’emissione della carta-moneta è sempre stato di competenza del Parlamento. E’ perciò opportuno anche da parte nostra di non rinunziare a questo prezioso diritto (sovrano).
Il privilegio concesso alla banca di non barattare in oro la carta-moneta (corso forzoso) fu la regalia per i prestiti concessi al Tesoro; Il corso forzoso impediva il fallimento della banca trasformandola in “fabbrica del debito”, ma ciò era contro l’interesse pubblico, perché il Governo finanziandosi indirettamente attraverso la banca, costringeva il Paese a pagare allo Stato, sotto forma di aggio, un interesse molto più alto di quello che direttamente lo Stato avrebbe pagato sottostando al saggio corrente di mercato. (Cfr. Dal disavanzo alla conversione, Salvatore Segre, Roma, 1911, pag. 305-306). Insomma un raggiro alto locato tra banca e governo che fu perpetrato ai danni del Paese, che veniva così gravato attraverso la fiscalità generale (imposte), sia della remunerazione a tassi di mercato del debito pubblico (interesse sul debito), sia della remunerazione del capitale privato delle banche (extra-rendita finanziaria). Il meccanismo di raggiro ai danni del Paese non è mutato nella sostanza, ma si è consolidato nella fabbrica del debito (banca centrale), che lo ha reso solo più complicato e meno evidente nella forma.

40ter. Nel XX sec., contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati dai clamorosi fallimenti bancari di fine ‘800 e primi ‘900, si riscontra ancora che numerose banche centrali (strutture apicali della corporazione bancaria) operano in aperto conflitto di interessi, compresa Bankitalia. Sono quei casi in cui il medesimo soggetto svolge sia la funzione di stampare carta-moneta, sia quella di vigilare sulla solvibilità delle banche (la c.d. sana e prudente gestione). Casi incredibili in cui il controllore è anche il controllato. Se poi si dà uno guardo alla più recente quotidianità, dagli anni ’70 in poi, ci si accorge che gli emittenti la “moneta bancaria o scritturale” (concessione di mutui, aperture di credito in conto, finanziamenti personali, ecc.) operano in un sistema totalmente fascista senza regole democratiche, dove i controlli del Parlamento sono nulli, dove prevale e vige la legge del più forte, dove chi fabbrica più debito vince sempre!
La politica monetaria (corporativa) di fatto pare non avere altro obiettivo che quello di accaparrarsi sempre più potere: finanziario, economico e politico. La dritta via per il raggiungimento dello scopo è il consolidamento del settore in grandi banche universali sul modello tedesco o c.d. too-big-to-fail (TBTF): enormi conglomerati finanziari che sono in grado di catturare decisori e burocrati ai più alti livelli di governo e fabbricare ciclopici debiti privati con una buona dose di azzardo morale, da porre in caso di insolvenza sulle spalle della fiscalità generale (debito pubblico). A tal proposito Luciano Gallino scrive giustamente di “Colpo di stato di banche e governi”. Cfr. anche Richard W. Fisher: Ending ‘Too Big to Fail’: A Proposal for Reform Before It’s Too Late, Dallas FED, 16 gennaio 2013.

40ter2. Secondo stime riportate dal quotidiano “La Stampa” del 9 settembre 2015 da Marco Zatterin, il debito privato non onorato (“sofferenze”), che il sistema bancario italiano vorrebbe conferire ad una bad bank nazionale, ammonta complessivamente alla ciclopica cifra di 320 miliardi di euro. Il principale scopo propagandistico e corporativo che si vuole raggiungere con la “bad bank” è quello di evitare di parlare di “fallimenti bancari”, argomento inevitabile quando si paventa invece il “credito di ultima istanza” (cfr. Il credito di ultima istanza, Ciampi, 1992, Università Cattolica del Sacro Cuore).

40quater. Regio decreto 2873/1866, Art. 5. “Almeno due terze parti della massa metallica, che ciascuno degli Istituti indicati nell’articolo 4 deve avere in confronto della propria circolazione, rimarranno immobilizzate. La quantità di massa metallica immobilizzata sarà fatta constare mediante processo verbale di verificazione da Commissioni composte dal Rappresentante locale del Tesoro, dal Presidente della Camera di commercio del luogo, dal direttore della sede o succursale della Banca nazionale, e dal Direttore dell’Istituto di cui si verifica la massa metallica.“. Se un tempo la “riserva frazionaria” era definita per legge, e quindi esisteva un controllo democratico che imponeva un limite alla stampa della moneta che una banca poteva mettere a reddito (in circolazione), oggi per raddoppiare la produzione della fabbrica del debito: la “moneta scritturale” messa a reddito nell’intero continente europeo, basta la parola di “quattro” moderni Cesari, per lo più sconosciuti al grande pubblico, se non per vicende giudiziarie, truffe o scandali finanziari, e racchiusi dentro una confortevole ed inaccessibile stanza della BCE a Francoforte! Meditate gente meditate!
La c.d. bad bank (cattiva banca) non è altro che una discarica abusiva di debiti privati non onorati, che presto o tardi sono posti sulle spalle della fiscalità generale, andando ad alimentare il debito pubblico. Il sistema bancario è sempre stato, fin dalle origini, “gran maestro” della privatizzazione dei profitti, così come “buon politico” della socializzazione delle perdite!

40quinquies. Le allocazioni Pareto-efficienti, spiegate con la curva dei contratti nella scatola di Edgeworth, descrivono da un punto di vista matematico (razionale), la tendenza del ricco a diventare sempre più ricco e del povero a diventare sempre più povero. Questo corso naturale, giustifica l’intervento dell’uomo sulla natura delle cose con politiche re-distrubutive della ricchezza, dai ricchi ai poveri, che in linea di principio possono anche collidere con il diritto di proprietà. Il sistema bancario com’è oggi organizzato (nel ruolo del ricco) vede incrementa la forza di attrazione della ricchezza di famiglie ed imprese (nel ruolo del povero), oltre la misura di ciò che è già nel corso naturale delle cose. La ragione di questo accaparramento di risorse e potere è da ricercarsi nei privilegi: di emissione, corso forzoso e corso legale della carta-moneta, o peggio, della moneta bancaria. Detti privilegi sono a tutt’oggi mantenuti intatti sulla base della falsa credenza che garantendo alla banca extra-profitti – redditi o sostegni al valore cartolare delle azioni e delle obbligazioni ottenuti gratuitamente – questi avrebbero indotto la banca ad assumere meno rischi. Recenti studi matematici, che tengono conto dell’azzardo morale, hanno invece dimostrato che la banca che usufruisce di privilegi è più rischiosa della banca che non li riceve, perché, usufruendo di un potere di mercato gratuitamente, tende non essere più competitiva ed efficiente, in quanto tende a non innovare la tecnologia di intermediazione. (Cfr. Bank Competition and Financial Stability: A General Equilibrium Exposition, Gianni De Nicolò, Marcella Lucchetta, WP/11/295).

41. Alfredo Rocco, Crisi dello Stato e sindacati, 1920, in Scritti e discorsi Vol. II, Milano, 1938. La trasformazione dello stato. Dallo Stato liberale, allo Stato fascista, Roma, 1927. Citati in Il tema della sovranità tra il XVIII ed il XIX secolo di Gianluca Sgueo, 2008.

42. citazione secondo il “Popolo d’Italia” del 29-4-1928, Mussolini in “Le Leggi“, vol.17 pag. 459, tratto da Il diritto costituzionale fascista, Gerhard Leibholz, 2007. Con la legge 17 maggio 1928 n. 1029 ed il Testo Unico 2 settembre 1928, n. 1993, fu dunque introdotto un nuovo sistema elettorale di tipo plebiscitario, come già allora lo si definì. La nuova legge elettorale prevedeva un Collegio unico nazionale chiamato a votare o a respingere una lista precostituita di 400 deputati, lista formata dal Gran Consiglio del Fascismo a partire da una rosa di 850 candidati proposti dalle confederazioni corporative nazionali, 200 candidati proposti da associazioni ed enti culturali ed assistenziali ed ulteriori candidati scelti dal Gran Consiglio stesso. Gli elettori potevano esprimersi con un “sì” o un “no” sul complesso della lista, esprimendo il proprio voto su schede recanti l’emblema del fascio littorio. Nel caso in cui la lista non fosse stata approvata dal corpo elettorale, era previsto che la consultazione si ripetesse con il concorso di liste concorrenti, presentate da associazioni ed organizzazioni che avessero almeno 5.000 soci elettori. La lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti, avrebbe avuto tutti i propri candidati eletti. (tratto da “Portale storico della Camera dei Deputati“).

42bis. L’articolo unico così recitava: “Il Governo del re è autorizzato, in quanto occorra, a emanare disposizioni aventi forza di legge, per la completa attuazione della Carta del Lavoro, deliberata dal Gran Consiglio Fascista il 21 aprile 1927 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del Regno del 30 aprile 1927 n. 100.” Firmata: Vittorio Emanuele, Mussolini, Martelli, Rocco.
Per meglio comprendere come si origina e si dispiega giuridicamente il diritto corporativo (vale anche per quello europeo) si rinvia alla disamina più approfondita sul “valore giuridico della Carta del lavoro” contenuta nella “Relazione del Ministro guardasigilli Dino Grandi al disegno di legge” 30 gennaio 1941-XIX n. 14, pubblicata sulla edizione straordinaria della “Gazzetta Ufficiale del Regno D’Italia n. 31 del 5 febbraio 1941”.

43. Discorso, pronunziato da Mussolini dinanzi al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, il 14 novembre 1933.

43bis. Capitalismo mondiale e cartelli tra le due guerre. (J.J. Lador-Lederer, Ed. Einaudi, 1959).

43ter. Dal corrispondente del “Corriere della Sera”: “Davanti a noi si presentava, fantastica e drammatica visione, l’alta cupola del Reichstag ardente. Essa appariva illuminata come da un fuoco di bengala e il vento spargeva miriadi di faville sugli alberi del parco circostante… Nell’aula gli incendiari debbono aver cosparso del combustibile liquido per accelerare l’opera del fuoco attaccato ai tappeti, alle tende, al mobilio… Sembra che i focolai siano numerosissimi: una ventina… La polizia è persuasa che Marinus van der Lubbe (l’arrestato) faccia parte di una vasta banda istigata da sovversivi locali…” Corriere della Sera del 1^ marzo 1933: “Assistendo ieri notte al tragico spettacolo dell’incendio, Adolf Hitler ha acclamato: Qui avete un esempio di ciò che l’Europa e noi abbiamo dal attenderci da comunismo. Su di esso cadrà ora il nostro pugno duro e possente“. In virtù del decreto del 28 febbraio, infatti, circa 4 mila funzionari comunisti ed un gran numero di dirigenti socialdemocratici e liberali furono arrestati. L’ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino, W. E. Dodd, annotò nei suoi diari diversi particolari sull’attività dei grandi uomini d’affari tedeschi in relazione con la politica nazista e non è privo d’interesse soffermarsi su alcune delle annotazioni. Il 30 novembre 1933, l’ambasciatore scriveva che una mezza dozzina o più di uomini d’affari, tra cui ancora Thyssen, Gütschov e Diehn, prendevano parte a sedute ufficiose del governo in periodi di crisi. Gli stessi monopolisti, secondo informazioni trasmesse all’ambasciatore dal console generale Messersmith, godevano di ampie esenzioni fiscali.

44. Sono state formulate due teorie, significative ed interessanti, sul perché il Big business dei finanzieri, industriali e latifondisti tedeschi abbiano scelto la linea politica di consegnare nelle mani di Hitler il potere. La prima fu presentata nel numero del settembre 1932 delle Deutsche Führerbrieƒe e vi si esponeva la necessità di abbandonare la linea che consisteva nel cercare un appoggio presso la socialdemocrazia, data la perdita di ascendente del partito sulle folle e le divergenze di vedute manifestatesi tra il partito e il Big Business durante la crisi. Si palesava quindi l’opportunità di cercare una diversa soluzione, in quanto «il controllo capitalistico si avvicina allo stato di emergenza nel quale l’unica soluzione è la dittatura militare… L’unica via per evitare questo stadio acuto è di mantenere con altri mezzi la divisione e la sottomissione della classe operaia, visto che il meccanismo precedente si è rivelato inadeguato… Se il nazionalsocialismo riesce a inserire i sindacati in una politica sociale di costrizione, come la socialdemocrazia era riuscita a inserirli in una politica liberale, il nazionalsocialismo verrà ad adempiere una delle funzioni essenziali per il futuro del mondo capitalistico…». La seconda formulazione, ancor più interessante in quanto presentata post factum, fu quella di Hans Bernd Gisevius, che, nella prefazione all’edizione americana del suo libro To the Bitter End, scriveva: «Dal 1929 divenne sempre più evidente che i leaders dei nostri partiti di sinistra e del centro erano incapaci di contenere le masse. Sembrava, quindi, ragionevole sperare che la marea potesse essere frenata dalla destra e avviata su vie di evoluzione. In ogni caso il tentativo doveva esser compiuto» (Il Calendario del Popolo, anno XV, agosto 1959 n. 179).

45. Storia economica del mondo. II. Dal XVII secolo ai nostri giorni (Rondo Cameron – Larry Neal, Ed. Il Mulino, 2005, pag. 65).

46. Il quotidiano britannico Telegraph pubblicò il 19 settembre 2000 un interessante articolo intitolato “Euro-federalists financed by US spy chiefs” di Ambrose Evans-Pritchard, mai ripreso dai media in cui sono citati documenti declassificati della C.I.A. trovati da Joshua Paul, un ricercatore della Georgetown University di Washington. Dai documenti risulterebbe che il principale strumento di Washington per forgiare l’agenda europea fu l’American Committee for a United Europe (ACUE), costituito nel 1948 e finanziato dalla Ford Foundation e dalla Rockefeller Foundation. Secondo alcune interpretazioni, il ‘Piano Marshall’, nel 1948-1952,fu funzionale al dominio economico dell’Europa, la NATO dal 1949 al dominio militare, e la CEE (oggi: Unione Europea UE) è funzionale al dominio politico, commerciale e culturale. Cfr. anche Richard J. Aldrich, “OSS, CIA and European unity: The American committee on United Europe, 1948-60“, Diplomacy & Statecraft, 1 marzo 1997. Risulta particolarmente interessante il documento “n. 51. Daily Summary Excerpt, 13 December 1947, De Gasperi Fears Communist Insurrectionary Action” della C.I.A. su Alcide De Gasperi (l’antesignano dei moderni traditori della patria. Una lunga lista di nomi che arriva sino ad oggigiorno, passando per Prodi e Berlusconi) che si lagna con lo straniero dei concittadini comunisti in Italia, probabilmente per battere cassa alla propria causa. E’ verosimile ritenere, da una parte, che la reale finalità del flusso di denaro proveniente da oltreoceano fosse la creazione di un neo-regime corporativo o fascista europeo non violento: quello stesso “autogoverno degli industriali” sul modello della N.R.A. che era fallito negli U.s.a., dall’altra, che la propaganda politica U.s.a. abbia trovato la giustificazione delle elargizioni nel contrasto dell’avanzata del comunismo in Europa.


APPENDICE GIURIDICA E DOCUMENTALE

Art. 54 – Divieto dell’abuso di diritto (carta di Nizza)
Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto [rectius: diritto individuale] che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà [rectius: valori] riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà [rectius: valori] limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta.

Art. 352-TFUE. “(ex articolo 308 del TCE)
1. Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo.
2. La Commissione, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà di cui all’articolo 5, paragrafo 3 del trattato sull’Unione europea, richiama l’attenzione dei parlamenti nazionali sulle proposte fondate sul presente articolo.
3. Le misure fondate sul presente articolo non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono.
4. Il presente articolo non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune e qualsiasi atto adottato a norma del presente articolo rispetta i limiti previsti nell’articolo 40, secondo comma, del trattato sull’Unione europea.”

Par. 325-328, Corte costituzionale tedesca, sentenza del 30 giugno 2009.
“325 (bb) Un effetto giuridico normativo è prodotto invece dall’art. 352 TFUE che intende arrotondare, nel rispetto dei rispettivi scopi, le competenze esistenti dell’Unione europea (cfr. sul precedente art. 235 TCEE, BVerfGE 89, 155 ). Il Trattato di Lisbona recepisce tale disposizione – con modifiche riguardo all’ambito di applicazione e ai presupposti procedurali – dal diritto vigente delle fonti primarie (ora art. 308 TCE).
326 L’art. 352 TFUE istituisce non solo una competenza d’azione per l’Unione europea, ma allenta anche il principio dell’attribuzione specifica limitata. Infatti, un’azione dell’Unione nel quadro delle politiche definite dai trattati deve essere possibile anche in mancanza di una competenza concreta, se l’azione dell’Unione europea è necessaria per realizzare uno degli obiettivi dei trattati (art. 352 paragrafo 1 TFUE).
327 Nel diritto vigente, l’art. 308 TCE appariva come una “competenza di arrotondamento dei trattati” (cfr. BVerfGE 89, 155 ) che consentiva un “perfezionamento immanente dei trattati” nel diritto dell’Unione “al di sotto della soglia della modifica formale dei trattati” (cfr. Oppermann,
Europarecht, 3a ed. 2005, § 6 par. 68). Le modifiche effettuate dal Trattato di Lisbona devono portare a una nuova valutazione della disposizione. L’art. 352 TFUE non è più limitato alla realizzazione degli obiettivi nell’ambito del mercato comune, riferendosi piuttosto al “quadro delle
politiche definite dai trattati” (art. 352 paragrafo 1 TFUE), ad eccezione della politica estera e di sicurezza comune (art. 352 paragrafo 4 TFUE). La disposizione può quindi servire, quasi nell’intero ambito di applicazione delle fonti primarie, a creare una competenza che consente un’azione a
livello europeo. Questa estensione dell’ambito di applicazione viene compensata in parte da dispositivi di garanzia di norme procedurali. Il ricorso alla clausola di flessibilità continua a presupporre una delibera del Consiglio, presa all’unanimità su proposta della Commissione e ora
previa approvazione del Parlamento europeo (art. 352 paragrafo 1 per. 1 TFUE). La Commissione, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà, deve richiamare l’attenzione dei parlamenti nazionali su queste proposte di produzione di fonti del diritto (art. 352 paragrafo 2 TFUE). Inoltre, una simile proposta non può comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono (art. 352 paragrafo 3 TFUE). Un’approvazione da parte degli Stati membri in armonia con le rispettive norme costituzionali non rientra tra i presupposti per l’entrata in vigore di una simile delibera.
328 La disposizione incontra dei dubbi di costituzionalità in relazione al divieto di delegare in bianco o di cedere la competenza sulla competenza, perché la disciplina novellata rende possibile modifiche sostanziali delle basi pattizie dell’Unione europea, senza che vi partecipino in modo costitutivo, oltre ai poteri esecutivi degli Stati membri, anche organi legislativi (cfr. sulla delimitazione delle competenze la Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione europea del 15 dicembre 2001, Bollettino UE 12-2001, I.27). L’obbligo di informazione dei parlamenti nazionali, previsto nell’art. 352 paragrafo 2 TFUE, non cambia nulla, perché la Commissione deve solo richiamare l’attenzione dei parlamenti su una simile proposta di produzione di fonti del diritto. Considerando l’indeterminatezza dei possibili casi di applicazione della clausola di flessibilità, il suo utilizzo presuppone costituzionalmente la ratifica da parte del Bundestag tedesco e del Bundesrat sulla base dell’art.23 comma 1 per. 2 e 3 Legge fondamentale. Il rappresentante nel Consiglio non può dichiarare l’assenso formale a una simile proposta di produzione di fonti del diritto fino a quando non ricorrono tali presupposti prescritti dal diritto costituzionale.

Par. 346-350, Corte costituzionale tedesca, sentenza del 30 giugno 2009
“346 cc) La Repubblica federale di Germania continua a disporre di un popolo statale anche dopo la ratifica del Trattato di Lisbona. Il concetto di cittadino dell’Unione, ora maggiormente delineato nel diritto dell’Unione, si fonda esclusivamente sul diritto dei trattati. La cittadinanza dell’Unione è esclusivamente derivata alla volontà degli Stati membri e non costituisce alcun popolo dell’Unione chiamato ad autodeterminarsi come un soggetto giuridico autocostituente.
347 In particolare, dall’introduzione della cittadinanza dell’Unione non si può desumere la fondazione di uno Stato federale. Le comparazioni storiche che si richiamano alla fondazione dello Stato federale tedesco attraverso la Federazione della Germania del Nord del 1867 (cfr. ad es.
Schönberger, Unionsbürger, 2005, p. 100 ss.) non portano, in questo contesto, a conclusioni diverse. In seguito alla realizzazione del principio della sovranità popolare in Europa, solo i popoli degli Stati membri possono disporre del proprio potere costituente e della sovranità dello Stato. Senza una volontà esplicitamente dichiarata dei popoli, gli organi eletti non sono autorizzati a creare, nei rispettivi spazi delle costituzioni nazionali, un nuovo soggetto di legittimazione, né a
delegittimare quelli esistenti.

348 In questo senso, la cittadinanza dell’Unione non ha nulla di culturalmente o normativamente preesistente al diritto dei trattati vigenti, nulla da cui potrebbero sortire effetti giuridici conformativi
della costituzione. La cittadinanza inserita nelle fonti primarie dalle precedenti modifiche dei trattati resta uno status derivato e integrativo della cittadinanza nazionale
(art. 17 paragrafo 1 per. 2 e 3 TCE; art. 9 per. 3 TUE-Lisbona). Questo status non viene modificato neppure dai diritti collegati alla cittadinanza dell’Unione, per quanto essi siano ora ampliati dal Trattato di Lisbona. I cittadini dell’Unione ricevono un diritto di partecipazione alla vita democratica dell’Unione europea (art. 10
paragrafo 3, art. 11 paragrafo 1 TUE-Lisbona), che accentua il nesso strutturale necessario esistente tra la comunità dei cittadini e il potere di supremazia. Viene agevolato inoltre l’esercizio dei diritti
già esistenti dei cittadini dell’Unione negli ambiti della tutela diplomatica e consolare nonché dei documenti di identificazione (cfr. art. 23 comma 2, art. 77 paragrafo 3 TFUE).
349 Anche le altre modifiche delle fonti primarie non comportano una sovrapposizione della cittadinanza dell’Unione sullo status di cittadinanza primordiale. Dal contesto complessivo del Trattato di Lisbona si evince che la variazione della lettera dell’art. 9 per. 3 TUE-Lisbona rispetto all’art. 17 paragrafo 1 per. 2 TCE (cfr. Schrauwen, European Citizenship in the Treaty of Lisbon: Any Change at all?, Maastricht Journal of European and Comparative Law (MJECL) 2008, p. 55), l’utilizzo del concetto di cittadino europeo nel contesto del Parlamento europeo (art. 14 paragrafo 2 comma 1 per. 1 TUE-Lisbona) e il previsto ruolo determinante dei cittadini nell’iniziativa civica europea (art. 11 paragrafo 4 TUE-Lisbona) non intendono creare un soggetto
di legittimazione personale autonomo a livello europeo.

350 Di fronte all’ampliamento dei diritti dei cittadini dell’Unione, il popolo dello Stato tedesco conserva la propria esistenza fino a quando la cittadinanza dell’Unione non si sostituisce o si sovrappone alla cittadinanza nazionale degli Stati membri. Lo status derivato della cittadinanza dell’Unione e la conservazione della cittadinanza degli Stati membri costituiscono il limite per lo sviluppo dei diritti di cittadinanza delineato nell’art. 25 paragrafo 2 TFUE e per la giurisprudenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea (cfr. sul significato della cittadinanza dell’Unione CGCE, sentenza del 12 maggio 1998, aff. C-85/96, Martínez Sala, Racc. 1998, p. I-2691 par. 62 s.; GCE, sentenza del 20 settembre 2001, aff. C-184/99, Grzelczyk, Racc. 2001, p. I-6193 par. 31 s.;
CGCE, sentenza del 17 settembre 2002, aff. C-413/99, Baumbast, Racc. 2002, p. I-7091 par. 82; CGCE, sentenza del 7 settembre 2004, aff. C-456/02, Trojani, Racc. 2004, p. I-7573 par. 31; CGCE, sentenza del 19 ottobre 2004, aff. C-200/02, Zhu, Racc. 2004, p. I-9925 par. 25). In questo
modo, agli Stati membri restano possibilità di differenziarsi in base alla cittadinanza. Il diritto di voto per i corpi di rappresentanza al di sopra del livello comunale negli Stati membri resta riservato ai cittadini nazionali e anche il dovere di solidarietà finanziaria tra gli Stati membri, che si
manifesta nell’erogazione di servizi sociali ai cittadini dell’Unione, resta limitato (cfr. CGCE, sentenza del 18 novembre 2008, aff. C-158/07, Förster, Europäische Zeitschrift für Wirtschaftsrecht (EuZW) 2009, p. 44).”

Sentenza 365/2007, Corte costituzionale italiana
“6. – Appare evidentemente necessario chiarire il significato del termine “sovranità” utilizzato nelle disposizioni impugnate, stante la sua natura polisemantica: esso, infatti, assume significati profondamente diversi a seconda che esprima sinteticamente le caratteristiche proprie di un ordinamento statale indipendente rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento internazionale, o che distingua la originaria natura di alcuni ordinamenti coinvolti nei processi di federalizzazione o nella formazione dei cosiddetti “Stati composti”, o che indichi la posizione di vertice di un organo costituzionale all’interno di un ordinamento statale.
La legge regionale n. 7 del 2006 nell’art. 1 e nella rubrica si riferisce alla elaborazione di un «nuovo statuto di autonomia e di sovranità del popolo sardo». Trattasi cioè di nuovo speciale statuto che, in quanto fonte di rango costituzionale abilitata dal nostro ordinamento a definire lo speciale assetto istituzionale della Regione ed i suoi rapporti con lo Stato, diverrebbe una fonte attributiva di istituti tali da connotare, per natura, estensione e quantità, l’assetto regionale in termini accentuatamente federalistici piuttosto che di autonomia regionale.
Al tempo stesso, il comma 2 dell’art. 2 della legge n. 7 del 2006 prevede che l’articolato dello statuto debba considerare anche le «ragioni fondanti della autonomia e sovranità» ed il comma 3 dell’art. 2 prevede che nel progetto possa essere indicato “ogni altro argomento ritenuto rilevante al fine di definire autonomia ed elementi di sovranità regionale […]”. Anche in queste disposizioni, attraverso la utilizzazione del termine “sovranità”, ci si riferisce alla pretesa attribuzione alla Regione di un ordinamento profondamente differenziato da quello attuale e, invece, caratterizzato da istituti adeguati ad accentuati modelli di tipo federalistico, normalmente frutto di processi storici nei quali le entità territoriali componenti lo Stato federale mantengono forme ed istituti che risentono della loro preesistente condizione di sovranità.
Non condivisibile appare quindi il reiterato tentativo della difesa regionale di ricondurre l’utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell’art. 1 Cost., nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella partecipazione popolare nei diversi enti regionali e locali.
Anzitutto la sovranità popolare – che per il secondo comma dell’art. 1 della Costituzione deve comunque esprimersi «nelle forme e nei limiti della Costituzione» – non può essere confusa con le volontà espresse nei numerosi «luoghi della politica», e perché non si può ridurre la sovranità popolare alla mera “espressione del circuito democratico”. Peraltro, ancora preliminare è la constatazione che la legge in parola utilizza il termine “sovranità” per connotare la natura stessa dell’ordinamento regionale nel rapporto con l’ordinamento dello Stato, nella diversa accezione del necessario riconoscimento alla Regione interessata di un ordinamento adeguato ad una situazione anche di sovranità (implicitamente asserita come esistente o comunque da rivendicare).
Né rileva minimamente su questo piano – come invece accennato dalla difesa regionale – la progressiva erosione della sovranità nazionale sul piano internazionale, specialmente in conseguenza della graduale affermazione del processo di integrazione europea, peraltro nell’ambito di quanto espressamente previsto dall’art. 11 della Costituzione. Processo istituzionale cui non può certo paragonarsi l’affermarsi del regionalismo nel nostro Paese, neppure a seguito della riforma costituzionale del 2001: infatti, la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria struttura essenziale, non scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione attribuisce alle Regioni ed agli enti territoriali. Del resto, quanto alle Regioni a statuto speciale, l’art. 116 Cost. non è stato modificato nella parte in cui riconosce alle stesse «forme e condizioni particolari di autonomia secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale».”

Sentenza 106/2002, Corte costituzionale italiana
“3. La difesa erariale, dunque, nel tentativo di rinvenire, al di là del dato testuale, una più profonda ragione costituzionale del carattere esclusivo della denominazione “Parlamento” attribuita alle assemblee legislative nazionali, pone l’accento sul fatto che siano queste la sede esclusiva, o anche soltanto preminente, in cui prende forma la sovranità del popolo.
Si deve in proposito osservare che il legame Parlamento-sovranità popolare costituisce inconfutabilmente un portato dei principî democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una relazione di identità, sicché la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a plasmarne l’essenza, non può essere condivisa nella sua assolutezza.
Sebbene il nuovo orizzonte dell’Europa e il processo di integrazione sovranazionale nel quale l’Italia è impegnata abbiano agito in profondità sul principio di sovranità, nuovamente orientandolo ed immettendovi virtualità interpretative non tutte interamente predicibili, un apparato concettuale largamente consolidato nel nostro diritto costituzionale consente di procedere, proprio sui temi connessi alla sovranità, da alcuni punti fermi. L’articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione netta e definitiva, che la sovranità “appartiene” al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda queste ultime, risale alla Costituente la visione per la quale esse sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all’affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare.
Il nuovo Titolo V – con l’attribuzione alle Regioni della potestà di determinare la propria forma di governo, l’elevazione al rango costituzionale del diritto degli enti territoriali minori di darsi un proprio statuto, la clausola di residualità a favore delle Regioni, che ne ha potenziato la funzione di produzione legislativa, il rafforzamento della autonomia finanziaria regionale, l’abolizione dei controlli statali – ha disegnato di certo un nuovo modo d’essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e Regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare.
In conclusione, se non lo si vuole racchiudere entro uno schema troppo angusto e ormai storicamente inattendibile, non è il principio di sovranità popolare a poter fondare un’attribuzione costituzionale all’uso esclusivo della denominazione “Parlamento”.

Traduzione de La Marsigliese in lingua italiana

Andiamo figli della Patria,
il giorno della gloria è arrivato!
Contro di noi si è alzata
La bandiera insanguinata della tirannia!
La bandiera insanguinata della tirannia!
Sentite nelle campagne
Ululare questi feroci soldati?
Vengono fino alle nostre braccia
Per sgozzare i nostri figli e i nostri compagni!

Alle armi, cittadini!
Formate i vostri battaglioni!
Andiamo! Andiamo!
Che un sangue impuro (ndr. di speculatori, di usurpatori)
Bagni i nostri campi!

Cosa vuole quest’orda di schiavi,
di traditori, di re congiurati?
Per chi queste ignobili catene,
questi ferri a lungo preparati?
Questi ferri a lungo preparati?
Francesi, per noi, ah! Che oltraggio!
Che rabbia deve suscitare!
Siamo noi che osano pensare
Di ridurci all’’antica schiavitù! (ndr. servitù della gleba)

Alle armi, cittadini!

Che!?! Queste corti straniere
Detterebbero legge a casa nostra!
Queste falangi mercenarie
Abbatterebbero i nostri fieri guerrieri!
Abbatterebbero i nostri fieri guerrieri!
Mio Dio! Le mani incatenate
Le nostre teste di piegherebbero sotto il loro giogo!
Ignobili despoti diventerebbero
I padroni del nostro destino!

Alle armi, cittadini!

Tremate, tiranni e voi crudeli,
l’obbrobrio di tutti i partiti,
tremate! I vostri progetti parricidi
riceveranno presto il giusto compenso!
riceveranno presto il giusto compenso!
Si è tutti soldati per combattere contro di voi,
se muoiono, i nostri giovani eroi
la terra ne produrrà di nuovi,
contro di voi saremo tutti pronti a combattere!

Alle armi, cittadini!

Francesi, magnanimi in guerra,
sopportate o trattenete i vostri colpi!
Risparmiate queste tristi vittime,
Che malvolentieri si armano contro di noi
Che malvolentieri si armano contro di noi.
Ma questi despoti sanguinari
Ma questi complici di Bouillé,
tutte queste tigri, che, senza pietà,
lacerano il seno della loro madre!

Alle armi, cittadini!

Amore sacro per la Patria,
conduci, sostieni le nostre braccia vendicatrici!
Libertà, cara libertà,
combatti con i tuoi difensori!
Combatti con i tuoi difensori!
Sotto le nostre bandiere, che la vittoria
Accorri ai suoi virili richiami!
Che i tuoi nemici moribondi
Vedano il tuo trionfo e la tua gloria!

Alle armi, cittadini!

Entreremo nel cammino
quando i nostri antenati non ci saranno più
vi troveremo la loro polvere
e la traccia delle loro virtù
e la traccia della loro virtù
sopravvivere meno gelosamente di loro
che di dividere la loro bara
noi avremo l’orgoglio sublime
di vendicarli o seguirli!

Alle armi, cittadini!

Regio decreto n. 2873 del 1 maggio 1866 (sul corso forzoso e legale).
“Con supplemento al n. 120 (1 maggio 1866) di questa Gazzetta Ufficiale pubblicavasi ieri sera il reale decreto che qui ripetiamo: Il numero 2873 della raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno contiene il seguente decreto:
VITTORIO EMANUELE II – PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTA’ DELLA NAZIONE – RE D’ITALIA
In virtù della facoltà conceduta al Governo del Re colla legge del 1 maggio 1866, n. 2872;
Sentito il Consiglio dei ministri;
Sulla proposizione del ministro delle finanze;
Abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue:
Art. 1. La Banca nazionale (nel Regno d’Italia) darà a mutuo al Tesoro dello Stato la somma di duecento cinquanta milioni di lire, aprendo a tal fine un conto corrente col Tesoro medesimo.
Per questo mutuo il Tesoro corrisponderà alla Banca l’interesse in ragione dell’uno e mezzo per cento pagabile a semestri maturati
.
Art. 2. Dal giorno 2 maggio, e sino a nuova disposizione, la Banca nazionale suddetta è sciolta dal’obbligo del pagamento in danaro contante ed a vista de’ suoi biglietti.
Art. 3. I biglietti della Banca saranno dati e ricevuti come danaro contante per il loro valore nominale, nei pagamenti effettuabili nello Stato tanto tra l’Erario pubblico e i privati, società e Corpi morali d’ogni natura per qualsiasi titolo e anche in conto o saldo di tributi o prestiti, quanto tra privati o Società e Corpi morali d’ogni natura tra loro vicendevolmente, non ostante qualunque contraria disposizione di legge o patto convenzionale.”

Petizione del 19 novembre 1932 al Presidente della Repubblica di Weimar
Ai pari dell’Eccellenza vostra pervasi da caldo amore per il popolo tedesco e per la patria, i (trentotto) firmatari hanno salutato con speranza la trasformazione fondamentale che l’Eccellenza vostra ha inaugurato nella gestione degli affari di stato. Con l’Eccellenza vostra condividiamo la necessità di un governo indipendente dal sistema parlamentare dei partiti, come emerge dal pensiero dell’Eccellenza vostra in merito al gabinetto presidenziale.
L’esito delle elezioni del Reichstag del 6 novembre di quest’anno ha dimostrato che l’attuale gabinetto, delle cui sincere intenzioni nessuno nel popolo tedesco dubita, non ha trovato, sulla via intrapresa, sufficiente sostegno nel popolo tedesco, mentre l’obiettivo indicato dall’Eccellenza vostra riscuote il plauso della piena maggioranza nel popolo tedesco, se — come si deve — si scinde da un partito come il comunista che nega lo stato. Contro il regime parlamentare dei partiti fin qui esistente sono orientati per principio non solo il partito popolare tedesco-nazionale, ma anche il partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, che condividono in tal modo l’obiettivo di vostra Eccellenza. Riteniamo tale esito particolarmente positivo e non possiamo a questo punto pensare che la realizzazione dell’obiettivo possa naufragare di fronte alla conservazione di un metodo inefficiente.
È chiaro che lo scioglimento a ripetizione del Reichstag, con il conseguente susseguirsi di elezioni anticipate che acuiscono la lotta fra i partiti, è controproducente non solo per l’assestamento e il consolidamento politico, ma anche per quello economico. Di contro, risulta evidente che ogni riforma della Costituzione che non fosse sostenuta dal più ampio movimento popolare scatenerebbe effetti politici, economici e psicologici ancora peggiori.
Riteniamo per questo nostro dovere morale chiedere rispettosamente all’Eccellenza vostra che per il raggiungimento dell’obiettivo da tutti perseguito, il rimpasto del gabinetto del Reich avvenga in modo tale da permettere di raccogliere in esso la forza popolare più ampia possibile.
Ci dichiariamo immuni da qualsiasi angusto orientamento politico di partito. Riconosciamo nel movimento nazionale che passa attraverso il popolo l’inizio promettente di un’epoca che dopo il superamento dei contrasti di classe creerà la base indispensabile per la ripresa dell’economia tedesca. Sappiamo che questa ascesa richiederà ancora molti sacrifici. Crediamo che questi sacrifici possano essere accettati volonterosamente solo se alla direzione del governo prenderà parte la componente più consistente di questo movimento nazionale.
Il conferimento della responsabilità di un governo fornito delle forze migliori dal punto di vista delle competenze e delle persone al Fuhrer del più grande gruppo nazionale rimarginerà le debolezze e gli errori connessi a ogni movimento di massa e trasformerà milioni di persone, oggi in disparte, in forza di consenso.
Con fiducia piena nella saggezza di vostra Eccellenza e nel sentimento del legame dell’Eccellenza vostra con il popolo, inviamo i nostri saluti a vostra Eccellenza.”
Tra i 38 firmatari e “benefattori” troviamo: Fritz Thyssen (re del’acciaio), Emil Kirdorf (il “barone” del carbone), Albert Vogler (delle Acciaierie Riunite), H.G. Knepper (della Compagnia mineraria di Gelsenkirchen), Georg Schnitzler (del colosso chimico IG-Farben), i banchieri Kurt e Schroder (della Stein Bank di Colonia), Von Strauss (della Deutsche Bank), Hilgard (delle assicurazioni Allianz), O.C. Fisher (della Dresdner Bank), F.Reinhard (della Deutsche Kreditgesellschaft), i capi della Norddeuthscher Lloyd, Krupp, Siemens, Bosch, Springorum, il conte von Kalckreuth (in rappresentanza dei latifondisti), l’ex cancelliere Cuno (legato alla compagnia di navigazione del trust HAPAG) ed il banchiere centrale H. Schacht.

Art. 48 – Costituzione della Repubblica di Weimar
“Se un Land non adempie gli obblighi impostigli dalla costituzione o da una legge del
Reich, il presidente può costringervelo con l’aiuto della forza armata.
Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.
Di tutte le misure prese ai sensi dei precedenti commi il presidente deve senza indugio dare notizia
al Reichstag. Le misure stesse devono essere revocate se il Reichstag lo richieda.
Nel caso di urgente necessità, il governo di un Land può adottare pel proprio territorio le misure
provvisorie indicate nel secondo comma. Esse vanno revocate se lo richiedono il presidente del
Reich o il Reichstag.
Norme più particolari saranno date con legge del Reich.”

Pag. 42, Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991
“…l’ordinamento costituito si fonda anch’esso su una norma fondamentale ad esso preventiva e ad esso sovraordinata: il “principio della sovranità popolare”, principio “attuale” storicamente ad ogni popolo, principio co-essenziale al concetto stesso di Repubblica e di Stato democratico, “norma”, strumento riconosciuto dal nostro essere Stato democratico per il fatto normativo in sé del rovesciamento della dittatura e della monarchia, della lotta di resistenza e della guerra di liberazione, del referendum istituzionale e della scelta per una nuova costituzione attraverso una Assemblea Costituente eletta a suffragio universale, libero, diretto e segreto e con il sistema proporzionale da parte del popolo italiano, per di più in una fase di transizione, per l’assenza di un regime costituzionale definito e stabile, avendo il precedente regime derivante dallo “statutario e dal “fascista” perduto ogni residua legittimità e legittimazione ed essendo stato surrogato da un regime provvisorio che aveva come riferimento anche lo stato armistiziale e di controllo alleato;…”.

SECTION 8. Costituzione degli Stati Uniti D’America – Poteri del Congresso
(1) The Congress shall have Power To lay and collect Taxes, Duties, Imposts and Excises, to pay the Debts and provide for the common Defence and general Welfare of the United States; but all Duties, Imposts and Excises shall be uniform throughout the United States;
(2) To borrow Money on the credit of the United States;
(3) To regulate Commerce with foreign Nations, and among the several States, and with the Indian Tribes;
(4) To establish a uniform Rule of Naturalization, and uniform Laws on the subject of Bankruptcies throughout the United States;
(5) To coin Money, regulate the Value thereof, and of foreign Coin, and fix the Standard of Weights and Measures;
(6) To provide for the Punishment of counterfeiting the Securities and current Coin of the United States;
(7) To establish Post Offices and post Roads;
(8) To promote the Progress of Science and useful Arts, by securing for limited Times to Authors and Inventors the exclusive Right to their respective Writings and Discoveries;
(9) To constitute Tribunals inferior to the supreme Court;
(10) To define and punish Piracies and Felonies committed on the high Seas, and Offences against the Law of Nations;
(11) To declare War, grant Letters of Marque and Reprisal, and make Rules concerning Captures on Land and Water;
(12) To raise and support Armies, but no Appropriation of Money to that Use shall be for a longer Term than two Years;
(13) To provide and maintain a Navy;
(14) To make Rules for the Government and Regulation of the land and naval Forces;
(15) To provide for calling forth the Militia to execute the Laws of the Union, suppress Insurrections and repel Invasions;
(16) To provide for organizing, arming, and disciplining, the Militia, and for governing such Part of them as may be employed in the Service of the United States, reserving to the States respectively, the Appointment of the Officers, and the Authority of training the Militia according to the discipline prescribed by Congress;
(17) To exercise exclusive Legislation in all Cases whatsoever, over such District (not exceeding ten Miles square) as may, by Cession of particular States, and the Acceptance of Congress, become the Seat of the Government of the United States, and to exercise like Authority over all Places purchased by the Consent of the Legislature of the State in which the Same shall be, for the Erection of Forts, Magazines, Arsenals, dock-Yards, and other needful buildings; —And
(18) To make all Laws which shall be necessary and proper for carrying into Execution the foregoing Powers, and all other Powers vested by this Constitution in the Government of the United States, or in any Department or Officer thereof.

(Traduzione)
Il Congresso avrà il potere: Di fissare e riscuotere tasse, diritti, imposte e dazi, di pagare i debiti [pubblici] e provvedere alla difesa comune e al benessere generale degli Stati Uniti; ma i diritti, le imposte e i dazi saranno uniformi in tutti gli Stati Uniti;
Di prendere danaro in prestito sul credito degli Stati Uniti;
Di regolare il commercio coi Paesi stranieri, tra gli Stati e con le tribù indiane;
Di stabilire una disciplina uniforme della Naturalizzazione, e leggi uniformi in materia di fallimento in tutti gli Stati Uniti;
Di battere moneta, di regolare il valore di questa e delle monete straniere, e di fissare lo standard dei pesi e delle misure;
Di provvedere a punire la contraffazione dei titoli e della moneta corrente degli Stati Uniti;
Di stabilire Uffici postali e Linee postali;
Di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, assicurando per periodi limitati di tempo agli Autori ed agli Inventori il diritto esclusivo sui loro scritti e scoperte;
Di costituire Tribunali inferiori alla Corte suprema;
Di definire e punire gli atti di pirateria e fellonia compiuti in alto mare e le offese contro il Diritto delle Genti;
Di dichiarare guerra, di concedere licenze di preda e di rappresaglia, e di stabilire regole sulle prede in terra e in mare;
Di reclutare e mantenere eserciti, ma nessun tipo di acquisizione di danaro a tal fine potrà esser votato per un termine più lungo di due anni;
Di creare e mantenere una marina militare;
Di stabilire regole per l’amministrazione e il governo delle forze militari di terra e di mare;
Di provvedere a convocare la Milizia per l’esecuzione delle leggi dell’Unione, per reprimere insurrezioni e respingere invasioni;
Di provvedere a organizzare, armare e disciplinare la Milizia e a disporre quale parte di essa sia impiegata al servizio degli Stati Uniti, riservando ai relativi Stati la nomina degli ufficiali e la funzione di addestrare la Milizia in conformità alla disciplina dettata dal Congresso;
Di esercitare in via esclusiva e per qualsiasi caso il potere legislativo in quel Distretto (di non più di dieci miglia quadrate) che, per cessione di alcuni Stati e con l’accettazione del Congresso, diverrà la sede del Governo degli Stati Uniti, e di esercitare eguali poteri su tutti i luoghi acquistati, con il consenso dei corpi legislativi dello Stato in cui si trovano per erigervi fortilizi, magazzini, arsenali, cantieri e altri edifici di necessità [pubblica]; e
Di fare tutte le leggi che saranno necessarie e utili per portare ed esecuzione i poteri predetti e tutti gli altri poteri di cui questa Costituzione investe il Governo degli Stati Uniti od i suoi Dipartimenti e funzionari.

La dichiarazione rilasciata dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950 – Testo integrale
La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.
Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta : abbiamo avuto la guerra.
L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania.
A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l’azione su un punto limitato ma decisivo.
Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei.
La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.
La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.
Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni.
Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.Per giungere alla realizzazione degli obiettivi cosi’ definiti, il governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti.
Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l’ammodernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità: la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell’acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei paese aderenti: lo sviluppo dell’esportazione comune verso gli altri paesi; l’uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie.
Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l’applicazione di un piano di produzione e di investimento, l’istituzione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell’acciaio tra i paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività.
Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l’organizzazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l’espansione della produzione.
I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un trattato firmato tra gli stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti. I negoziati indispensabili per precisare le misure d’applicazione si svolgeranno con l’assistenza di un arbitro designato di comune accordo : costui sarà incaricato di verificare che gli accordi siano conformi ai principi e, in caso di contrasto irriducibile, fisserà la soluzione che sarà adottata.
L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità.
Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’ONU, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici.
L’istituzione dell’Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell’esercizio del suo compito, l’Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all’autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno.


PRIMA CHE LA RICERCA SCIENTIFICA INDIPENDENTE MUOIA

ELENCO AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E BANCA D’ITALIA S.P.A.

LETTERA APERTA ALL’ISTAT

DIREZIONE CENTRALE DEI DATI AMMINISTRATIVI E DEI REGISTRI STATISTICI

Spett.le Istat, Direzione centrale dei dati amministrativi e dei registri statistici 

con la presente vorrei segnalare alla Vs. cortese attenzione che nell’elencazione di cui alla G.U. n. 227/2012, tra le autorità indipendenti – di cui all’art. 1, comma 2, L. 196/2009 – non è stata inserita la Banca D’Italia S.p.A.

Invero, la Banca D’Italia S.p.A. è notoriamente un istituto di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 19, comma 2, L.262/2005, e come tale sulla base delle norme classificatorie e definitorie proprie del sistema statistico nazionale e comunitario (Regolamento UE n. 2223/96, SEC95  Sistema Europeo dei Conti), della norma di cui all’art. 1, comma 2, L. 196/2009, ma anche e soprattutto per garantire quanto stabilito in termini di buona amministrazione ed imparzialità dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione della Repubblica Italiana, detta Banca D’Italia S.p.A. dovrebbe essere senz’altro da annoverare tra le amministrazioni pubbliche che concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale in coerenza con le procedure e i criteri stabiliti dall’Unione europea, che ne condividono le conseguenti responsabilità ed il concorso al perseguimento di tali obiettivi, e che si realizzano secondo i principi fondamentali dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica.

La mancata indicazione della Banca D’Italia tra le unità istituzionali che fanno parte delle amministrazioni pubbliche, oltre che essere una palese violazione del dettato letterale della legge (art. 1, comma 2, L. 196/2009), sembra lasciare presupporre uno status del tutto anomalo dell’istituto di emissione nel panorama costituzionale, e cioè del tutto illegale ed al di fuori del novero di cui all’art. 97 della Costituzione. Se così fosse, tale sarebbe un atto potenzialmente eversivo dell’ordinamento costituzionale dello Stato, con un istituto di diritto pubblico: la Banca D’Italia, completamente avulso al sistema delle leggi dello Stato.

La medesima osservazione vale inoltre sia per la CONSOB sia per l’ISVAP, che senza ombra di dubbio sono da annoverare tra le autorità indipendenti di cui all’art. 1, comma 2, L.196/2009, sicché l’operato di codesta Direzione desta quanto meno stupore, dato che tutte e tre le autorità indipendenti sopra elencate (BANKITALIA, CONSOB ed ISVAP) sono enti dotati di ampi poteri regolamentari extra-legislativi, attinenti ai gangli economico-finanziari dello Stato, quali i mercati del credito e della raccolta del risparmio presso il pubblico, le borse dei titoli e degli strumenti finanziari in genere e il mercato delle assicurazioni.

Forse queste autorità indipendenti sono indegne di essere annoverate tra le unità istituzionali che fanno parte della pubblica amministrazione, o forse sono autorità troppo importanti per essere incasellate tra la pubblica amministrazione? E se non sono pubblica amministrazione, allora mi chiedo gli interessi di chi o di che cosa debbano rappresentare questi enti?

Faccio presente che in occasione della precedente elencazione avevo già segnalato, a codesta spettabile Direzione Centrale, l’anomala ed inquietante omissione dell’istituto di emissione in occasione della precedente elencazione, senza peraltro ricevere alcuna risposta in merito, che pure dovrebbe essere di carattere obbligatorio, se non quanto meno doverosa.

Lo scrivente si riserva eventualmente di adire alle competenti sedi giudiziarie per segnalare la gravissima lacuna, già in passato evidenziata, nel caso in cui perduri l’omessa elencazione della Banca D’Italia S.p.A., della Consob e dell’ Isvap tra le unità istituzionali che fanno parte delle amministrazioni pubbliche, quali autorità indipendenti, per violazione dei doveri che incombono a codesto Ufficio, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, L.196/2009.

Distinti saluti

MB

BANCO-STATO CORPORATIVO EUROPEO – FAQ

Frequently Asked Questions (FAQ) – Domande frequenti sul banco-stato corporativo Ue

1. Che cos’e’  il corporativismo?

Nello storico suo discorso del 14 novembre 1933 al Consiglio nazionale delle Corporazioni, Benito Mussolini dichiarò: il corporativismo è l’economia disciplinata, e quindi anche controllata, perché non si può pensare a una disciplina che non abbia un controllo. Il corporativismo supera il socialismo e supera il liberismo; crea una nuova sintesi.

Non si deve credere quindi che il corporativismo sia soltanto l’insieme delle istituzioni che hanno il fine di regolare i rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori. Questa è solo una parte del corporativismo.

Il corporativismo non regola solamente la questione sociale, ma è un nuovo sistema di organizzazione, di vita e di attività della collettività nazionale e dello Stato nel campo economico e politico.

Il corporativismo è un nuovo ordinamento dello Stato in cui tutte le forze politiche e tutti gli organi vengono fatti convergere verso il maggiore potenziamento e verso il massimo benessere della collettività, sulla base di un’unica sovranità: quella dello Stato (non del Popolo).

È una nuova organizzazione della nazione in cui le attività degli individui e dei gruppi sociali sono sempre subordinati ai superiori fini nazionali.

Lo Stato corporativo (o fascista) si chiama così non perché sia fondato soltanto sulle corporazioni, ma perché è uno Stato nel quale l’organizzazione, la vita e l’attività economica, sociale e politica sono fondate sul corporativismo.

[Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Corporativismo#Stato_corporativo ]

2. Che cos’e’  lo stato corporativo?

Negli U.s.a., il tentativo di introdurre lo Stato corporativo viene fatto risalire al National Industrial Recovery Act (N.I.R.A.) ed alla National Recovery Administration (N.R.A.), che aveva il compito di sovraintendere alla stesura delle norme di concorrenza leale. L’N.R.A. aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia, sebbene senza la brutalità e i metodi di stato di polizia di quest’ultimo.

L’N.R.A era sostanzialmente un sistema di pianificazione economica privata (autogoverno industriale), con supervisione governativa.

Il 27 maggio 1935 l’N.R.A. fu dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Sostanzialmente, la stesura del codice sulle norme di concorrenza leale da parte della N.R.A. rappresentava una delega incostituzionale del potere legislativo in violazione della Commerce Clause.

Erra chi crede che “Stato corporativo” significhi soltanto Stato fondato sulle “Corporazioni”.

“Stato corporativo” e “Stato fascista” sono termini equivalenti, poiché, come disse Benito Mussolini: lo Stato fascista è corporativo, o non è fascista.

In Germania, lo stato corporativo e’ stato introdotto con l’emanazione della c.d. legge dei pieni poteri [ http://it.wikipedia.org/wiki/Decreto_dei_pieni_poteri ], che permise al Cancellire Adolf Hitler ed al suo gabinetto di promulgare leggi senza l’approvazione del Parlamento tedesco (Reichstag), concentrando di fatto nelle sue mani il potere legislativo e quello esecutivo.

In Italia, l’occasione per introdurre il corporativismo fu la “Carta del Lavoro”. Il testo fu approvato dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927 e nonostante non avesse valore di legge o di decreto, non essendo allora il Gran Consiglio organo di Stato ma di partito, esso fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927.

Lo stato corporativo (o fascista) europeo viene giuridicamente introdotto dal trattato di Lisbona, e precisamente dall’art. 352 del Trattato di Funzionamento dell’Unione europea (TFEU) che recita:

Articolo 352 (ex articolo 308 del TCE)
1. Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo.
2. La Commissione, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà di cui all’articolo 5, paragrafo 3 del trattato sull’Unione europea, richiama l’attenzione dei parlamenti nazionali sulle proposte fondate sul presente articolo.
3. Le misure fondate sul presente articolo non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono.
4. Il presente articolo non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune e qualsiasi atto adottato a norma del presente articolo rispetta i limiti previsti nell’articolo 40, secondo comma, del trattato sull’Unione europea
.”

Tale articolato ripropone con distorsione internazionalistica la dottrina sui poteri implici di origine statunitense.

L’art. 352-TFEU istituisce non solo una competenza legislativa per l’Unione europea, ma allenta anche il principio dell’attribuzione specifica limitata. Infatti, secondo il paragrafo 1, un’atto legislativo dell’Unione nel quadro delle politiche definite dai trattati deve essere possibile anche in mancanza di una competenza concreta, se l’atto legislativo dell’Unione europea è necessario per realizzare uno degli obiettivi dei trattati (art. 352, paragrafo 1, TFUE).

Nel diritto previgente, l’art. 308-TCE (ex art. 235-CEE) appariva come come una “competenza di arrotondamento dei trattati” che consentiva un “perfezionamento immanente dei trattati” nel diritto dell’Unione “al di sotto della soglia della modifica formale dei trattati“.

Le modifiche effettuate dal Trattato di Lisbona impongono una nuova valutazione della disposizione.

L’art. 352 TFUE non è più limitato alla realizzazione degli obiettivi nell’ambito del mercato comune, riferendosi piuttosto al “quadro delle politiche definite dai trattati” (art. 352, paragrafo 1, TFUE), ad eccezione della politica estera e di sicurezza comune (art. 352, paragrafo 4, TFUE).

Tale disposizione serve quasi nell’intero ambito di applicazione delle fonti primarie a creare una competenza che consente un’azione legislativa a livello europeo. Questa estensione dell’ambito di applicazione, rispetto all’ex art. 308-TCE, seppure compensata in parte da dispositivi di garanzia di norme procedurali, non contempla un’approvazione da parte degli Stati membri in armonia con le rispettive norme costituzionali, e tale preventiva approvazione non rientra tra i presupposti per l’entrata in vigore di un simile atto legilsativo.

La Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht), con la nota sentenza del 30 giugno 2009 sul trattato di Lisbona, ha dichiarato l’art. 352-TFUE di dubbia costituzionalità in quanto esso rappresenta una “delega in bianco” o una “cessione di competenza sulla competenza” vietata dalle norme costituzionali, segnatamente in violazione della sovranità popolare che resta originaria, assoluta, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile e del principio di diritto costituzionale riassunto nel brocardo latino delegata potestas non potest delegari.

In pratica la disciplina novellata dell’art. 352-TFEU in senso corporativo (o fascista) rende possibile modifiche sostanziali delle basi pattizie dell’Unione europea senza che vi partecipino in modo costitutivo, oltre ai poteri esecutivi degli Stati membri, anche organi legislativi.

Oggi, come allora, l’essenza (giuridica) dello Stato corporativo consiste quindi nel porre il potere legislativo al di fuori della portata delle cariche legittimamente elette a suffragio universale, per consegnarlo nelle mani di elitès minoritarie nominate e non elette.

Il diritto corporativo si annida quindi nei regolamenti comunitari e nelle sentenze della Corte di Giustizia europea, ed in genere tutti gli atti emanati dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Consiglio europeo in particolare, tra cui la Decisione 2011/199/UE che istituisce l’ESM.

Esempio nostrano, ancora piu’ recente, di diritto corporativo è il decreto del ministro dell’Economia e Finanze, Mario Monti, per l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali, che il Consiglio di Stato ha bocciato proprio perche’ “non e’ demandato al Ministero – scrivono i giudici di Palazzo Spada – di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu per gli immobili degli enti non commerciali.” Infatti tale competenza è del Parlamento, cioè l’organo legislativo previsto dalla Costituzione italiana.

[Cfr. http://www.polyarchy.org/basta/documenti/mussolini.1933.html ]

[Cfr. Corte costituzionale tedesca, sentenza del 30 giugno 2009 sul trattato di Lisbona, par. 325-328, traduzione italiana ]

[Cfr. Stato corporativo e corporativismo

3. Che cosa significa elitismo?

L’elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo cui il potere è sempre in mano ad una minoranza.

Il punto di forza dell’élite è nell’atomizzazione della massa.

Secondo l’elitismo la massa è confusa, dispersa, incapace di organizzarsi. Su questo caos si fonda la forza dell’élite, che è invece organizzata (solitamente in lobbies, think tanks o peggio decision tanks) e in questo modo ottiene e mantiene il suo potere.

C’è dunque una critica verso la democrazia, ma non è una critica che scaturisce da un giudizio di valore, bensì una critica quasi ontologica: la democrazia, semplicemente, non può esistere, poiché il popolo non ha le capacità di autogovernarsi e nel momento in cui si organizza esso porta automaticamente un’élite a prendere il potere. Si parla di a-democraticità dell’elitismo, non di anti-democraticità.

Per forza di cose, gli elitisti criticano anche la visione del liberismo basato sulla separazione dei poteri (appunto perché il potere è invece monopolizzato), e criticano il socialismo perché ritengono che la società – ben lungi dall’essere divisa in classi – sia frammentata e atomizzata.

La visione elitista si contrappone infine radicalmente a quella del pluralismo: quest’ultimo infatti ritiene che il potere sia largamente distribuito (e non monopolizzato) tra gruppi che si equilibrano (senza quindi formare élite).

http://it.wikipedia.org/wiki/Elitismo ]

4. Che cos’e’ il banco-stato?

Mentre un tempo esistevano le banche di Stato, che subivano la buona e la cattiva sorte dello Stato al cui interno erano collacate, oggi la questione si è capovolta.

Esistono banche talmente grandi c.d. banche “troppo grandi per fallire” (too-big-to-fail – TBTF oppure SIFI oppure G-SIFI), che non sono altro che banche universali sul modello tedesco che hanno raggiunto dimensioni talmente ciclopiche da occupare con i loro conglomerati finanziari le economie di intere nazioni e continenti.

Oggi con lo stato delle banche, sono gli Stati nazionali che subiscono la buona e la cattiva sorte delle banche occupanti.

Capita molto spesso che ci siano le c.d. porte girevoli (revolving doors) tra grandi banche universali e amministrazione dello Stato per cui i medesimi soggetti occupano a turno posizioni di vertice nelle istituzioni bancarie e poi ai vertici degli Stati nazionali.

Il centro degli interessi corporativi è rappresentato dalle banche centrali.

[Cfr. http://www.bankofengland.co.uk/publications/Documents/speeches/2009/speech409.pdf ]

5. Qual’e’ la differenza fra un gruppo di pensiero (think tank) e un gruppo di decisione (decision tank)?

Un gruppo di pensiero è un organismo, un istituto, una società o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche (anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alle scienze e la tecnologia, dalle politiche industriali o commerciali alle Consulenze militari.

Un think tank (un ente legale) diventa un decision tank (un ente illegale) quando un gruppo di persone non si limita a discutere e proporre soluzioni ai governanti, ma in “virtù” del fatto che uomini di potere (politici e/o burocrati) fanno parte di quel gruppo, prende delle decisioni (occulte) che vengono poi tradotte nelle sedi opportune in provvedimenti di legge, regolamentari od amministrativi .

Esempi ambigui (inquietanti per alcuni) di think tank sono:

[ http://en.wikipedia.org/wiki/Bruegel_(institution) ]

[ http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg ]

[ http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_Trilaterale ]

Il problema dei gruppi di decisione occulti, delle persone che vi fanno parte e delle loro cariche all’interno delle pubbliche amministrazioni e dei governi, è stato sollevato da diverse personalità politiche non allineate:

Nigel Farage (MEP) [ http://www.youtube.com/watch?v=oYk1bG0OTeU ];

Mario Borghezio (MEP) [ http://www.youtube.com/watch?v=O-ItxgltrLk ];

Patricia McKenna [ http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=WQ&reference=P-2003-1370&language=IT ] [ http://www.europarl.europa.eu/sides/getAllAnswers.do?reference=P-2003-1370&language=IT ]

[Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Think_tank ]

6. Che cos’e’ il banco-stato corporativo Ue?

Il banco-stato corporativo Ue è un regime corporativo (o fascista) rappresentato dalle seguenti istituzioni:

[ http://it.wikipedia.org/wiki/Consiglio_europeo ]

[ http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_europea ]

[ http://it.wikipedia.org/wiki/Banca_centrale_europea ]

Quelli sopra riportati, sono tutti organi legislativi nel loro campo d’azione. Nessun rappresentante di queste istituzioni è eletto direttamente da un corpo elettorale a suffragio universale. Tutti i componenti di queste istituzioni sono nominati, secondo meccanismi che risultano oscuri. Quasi la totalità dei componenti di questi istituzioni proviene o fa parte di un gruppo di pensiero o di decisione (occulto).

A dispetto di quanti ingenuamente credono, il Parlamento europeo, che è l’unica istituzione europea ad essere eletta direttamente dai suoi cittadini, non è l’organo legislativo dell’Unione europea.

Esso è un organo preminentemente consultivo e di controllo delle proposte di legge che vengono predisposte dalla Commissione e dal Consiglio. Di fatto, i suoi principali poteri si limitano: all’esercizio del controllo politico sull’operato della Commissione, all’esame delle proposte legislative della Commissione ed all’approvazione del bilancio annuale dell’Unione, insieme al Consiglio dell’Unione europea.

Quindi, come si può agevolmente riscontrare, nelle istituzioni dell’Unione europea di democrazia vera c’è ne ben poca!

Se esistesse un istituto come un referendum europeo, si potrebbe parlare di regime direttoriale europeo, ma siccome questo istituto in Europa non esiste, necessariamente bisogna parlare di regime corporativo (o fascista) europeo.

7. Come fa il banco-stato corporativo Ue ad opprimere le democrazie?

Attraverso l’emanazione del diritto corporativo, cioè uno pseudo-diritto travestito da diritto internazionale.

[Cfr. http://www.parlament.ch/i/suche/pagine/geschaefte.aspx?gesch_id=20093256 ]

8. Quali rimedi legali esistono contro il banco-stato corporativo Ue e le sue pseudo-leggi?

Vi sono vari percorsi legali che possono essere adoperati, per invalidare pacificamente e legittimamente il diritto corporativo Ue, come la denuncia dei trattati internazionali istitutivi dell’unione europea e dell’euro per violazione del trattati ad opera di una delle parti come ad esempio la Grecia, per la sopravvenienza di una situazione che rende impossibile l’esecuzione come il finanziamento dei fondi salva-banche con risorse della fiscalità generale poste sulle spalle di ignari contribuenti, per il mutamento fondamentale delle circostanze che aveva condotto al trattato, quali ad esempio gli spread sui titoli di stato.

Altri rimedi si possono adoperare in sede giurisdizionale, eccependo ad esempio la violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione ai cittadini, dettati in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, per disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana.

L’intero settore dei rapporti fra (pseudo) diritto europeo e diritto interno non è sottratto alla competenza della Corte Costituzionale italiana. La legge di esecuzione dei Trattati europei puo’ andar soggetta al sindacato della Corte, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell’ipotesi contemplata, ormai palpabile, di violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione ai cittadini, quali appunto i principi democratici, di legalità e la sovranità del Popolo. La Corte potrebbe essere, quindi, chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità statuale.

[Cfr.  http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041101120858 ]

[Cfr.  http://www.giurcost.org/decisioni/1973/0183s-73.html ] [ http://www.giurcost.org/decisioni/1984/0170s-84.html ] [ http://www.dirittoeconomia.it/i_regolamenti_comunitari.htm ]

9. Cosa puo’ fare il singolo contro il banco-stato corporativo Ue?

[Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Bank_run ]

10. Quali interessi difende il banco-stato corporativo Ue contro famiglie, lavoratori e piccole imprese?

Esso vuole estendere o mantenere intatti i privilegi di legge accordati al sistema bancario nei corso dell’ultimo secolo, per il predominio (oligopolio) di pochi grandissimi e pericolosi attori, sul mercato del credito e della raccolta del risparmio presso il pubblico.

Attraverso il totale controllo della moneta, il banco-stato corporativo Ue si prefigge di manipolare ogni aspetto della vita quotidiana di famiglie ed imprese, finalizzato al mantenimento al potere delle èlites.

Di particolare interesse sono le conclusioni a cui sono giunti gli studiosi in ordine alla stabilità del sistema finanziario.

In pratica, gli studi matematici hanno dimostrato che gli aiuti e i privilegi (anche regolamentari) che lo Stato accorda al sistema bancario, per sostenerne redditività ed valore cartolare sulla falsa credenza di renderlo stabile, creano in verità oligopoli che non innovano le tecniche di intermediazione finanziaria, ma peggio sono lungi dal garantire la stabilità del sistema finanziario, ed anzi, a causa dell’azzardo morale questi aiuti e privilegi voluti dalla politica creano instabilità del sistema, impedendo i miglioramenti indotti dalla concorrenza.

[Cfr. http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2011/wp11295.pdf ]

11. Perche’ il banco-stato corporativo Ue oggi e’ vulnerabile?

Come si dice: “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”.

I briganti del XXI secolo (le grandi banche universali), dediti alle scorribande sui mercati di ogni angolo del globo ed alla finanza selvaggia e predatoria della cartolarizzazione dei mutui sub-prime, hanno creato – con la compiacenza dei regolatori (le banche centrali) – un sistema bancario occulto (fuori bilancio e fuori controllo), per lucrare oltre ogni limite della decenza umana, con leve finanziarie assurde, sulle spalle dell’economia reale (lavoratori e piccole imprese), credendo erroneamente di avere scaricato tutti i rischi di insolvenza (rischi di credito, di liquidità e di controparte) su ignari risparmiatori e blasonati creduloni investitori istituzionali.

Non è andata così. Il rischio fatto uscire con cura e sapiente tecnica dalla porta è rientrato improvvisamente ed inaspettatamente dalla finestra, ed i briganti, al posto del vil denaro di depositanti ed obbligazionisti, si sono ritrovati tra le mani montagne e montagne di carta straccia, creando incolmabili voragini nei loro bilanci.

Il denaro, quello vero, le grandi banche universali lo hanno delapidato ormai da un lustro, e per ristorare l’ammanco devono attingere alla fiscalità generale per parecchi anni, forse decenni, esponendo i loro “uomini migliori” alla bisogna. Da qui l’inizio della loro fine.

[Cfr. http://crisi-subprime.blogspot.it/2009/05/allorigine-della-crisi.html ]

12. Perchè dobbiamo distruggere il banco-stato corporativo Ue?

Il banco-stato corporativo Ue si prefigge di mantenere in vita, ad ogni costo, enormi conglomerati finanziari decotti che pur non essendo piu’ in grado di finanziare l’economia reale, rappresentano enormi centri di potere economico-finanziario e politico, in mano a pochi privilegiati (le élites).

L’unico modo che il banco-stato corporativo Ue ha per mantenere in vita questi conglomerati finanziari, e’ quello di gettare nella miseria un’intera generazione di cittadini, con alta disoccupazione (cioè bassi i salari) e difficoltà di credito alle imprese per gli investimenti.

Con imposte equivalenti a ciò che fu in Italia la tassa sul macinato, oggi l’I.M.U., si riduce la propensione al consumo delle famiglie. Con la regolazione stringente del credito alle imprese da parte del sistema bancario (Basilea 3) si riduce la propensione agli investimenti delle imprese.

La disoccupazione serve a mantenere alta l’offerta di lavoro e quindi bassi i salari. La politica economica di riduzione dei consumi perseguita dalla tecnocrazia, previene il sorgere di focolai di inflazione, che diversamente sarebbero inevitabili, a causa delle inondazioni di liquidità effettuate dalla banche centrali nel sistema bancario, per impedirne l’insolvenza, e sostenerne redditività e valore cartolare.

In questo immenso mare di liquidità, attualmente inerte, anche un lieve aumento dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese produrrebbe fiammate di inflazione, e costringerebbe le banche centrali, da principio, ad aumentare i tassi di interesse, e poi ancora se ciò non fosse sufficiente, a drenare liquidità dal sistema finanziario, con le operazioni c.d. di mercato aperto.

Delle due l’una: o alta disoccupazione e bassi salari o la scomparsa dei conglomerati finanziari.

Le élites, ovviamente, hanno già deciso che la scomparsa dei conglomerati finanziari non giova all’utile del più forte.

[Per l’eccezione che conferma la regola cfr. http://www.dallasfed.org/assets/documents/fed/annual/2011/ar11.pdf ]

SCELTE OBBLIGATE PER L’EUROPA

BANCO-STATO CORPORATIVO EUROPEO, MA QUANTO MI COSTI ?

Non e’ del tutto chiaro chi debba ancora pagare per la redistribuzione della ricchezza necessaria per il salvataggio dei potentati economici-finanziari ora in crisi: le grandi banche universali.

In Italia, fino ad ora hanno pagato solo lavoratori e pensionati. Recentissimo il decreto legge 87/2012 (cfr. artt. 5 e 10) del governo Monti, ad personam giuridica, che imputa a tagli lineari dei ministeri, o al debito pubblico, gli € 3,9 miliardi (o se preferite 7.551 miliardi delle vecchie Lire) necessari per il salvataggio [1] della banca Monte dei Paschi di Siena.

LE PERDITE DELLE BANCHE

Negli anni 2008-2010 le grandi banche universali di stati nazionali, tra cui Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna, hanno accusato fortissime perdite economiche, per avere assunto rischi eccessivi nella smania di lucro della finanza selvaggia dedita alla cartolarizzazione dei mutui.

I SALVATAGGI

Per tutelare correntisti ed obbligazionisti, ma soprattutto per mantenere intatto il potere politico-economico nelle mani di pochi privilegiati – dal fallimento di queste grandi banche dedite all’economia predatoria ed alla finanza selvaggia – gli stessi stati nazionali sono intervenuti massicciamente in loro aiuto socializzando le perdite, con oneri posti a carico del bilancio pubblico[2] ossia della fiscalità generale.

IL TRASFERIMENTO DEL RISCHIO

I colossali interventi finanziari di salvataggio hanno minato la sostenibilità dei bilanci degli stati nel lungo termine, trasferendo il rischio di insolvenza dai bilanci privati delle banche ai bilanci pubblici nazionali e quindi al debito sovrano.[3] Per paesi come Irlanda, Portogallo, Grecia – dopo l’esplosione del debito per il salvataggio delle loro grandi banche – si è reso impossibile rifinanziarsi sui mercati collocando titoli di stato. Per evitare che uscissero dall’area euro, gli altri paesi europei hanno dovuto onorare i loro impegni: sono nati i fondi salva-banche, che la propaganda ha subito ridenominato fondi salva-euro o fondi salva-stati.

LO SPREAD

Altri paesi come la Spagna post-fallimento Bankia, e l’Italia hanno sperimentato tassi di interesse sui titoli di stato vigenti prima dell’introduzione dell’euro, aggravando ulteriormente, specie per l’Italia, le gia’ precarie condizioni di equilibrio delle finanze pubbliche. La Francia post-fallimento Dexia, ha perso la tripla A. Il differenziale di rendimento tra i vari titoli di stato con il titolo di stato tedesco (Bund a 10 anni), il famigerato spread e’ divenuto l’emblema e la misura delle difficoltà degli stati a mantenere saldi gli impegni internazionali presi, conseguenti al salvataggio delle banche.[4]

LE MANOVRE FINANZIARIE

Nel tentativo di ristabilire gli equilibri delle finanze pubbliche, e fare rientrare lo spread, i governi europei hanno richiesto sacrifici immani ai cittadini con mastodontiche manovre finanziarie, agendo principalmente sulle pensioni e sulla fiscalità generale. Intere economie, compresa l’Italia, sono state depresse e depauperate della ricchezza, con il solo risultato di condurre le lancette degli orologi al punto di partenza.

IL RITORNO AL PUNTO DI PARTENZA

Questi circoli viziosi di politiche trasimachee da stato corporativo non hanno risolto i problemi, anzi li hanno aggravati oltremodo:

  • le banche restano insolventi,
  • i bilanci pubblici sono fuori controllo,
  • le economie sono asfittiche,
  • le popolazioni sono depresse ed impoverite.

La scelta di onorare e garantire i debiti di poche decine di grandi banche private europee con migliaia di miliardi di euro di risorse pubbliche, poste a carico di famiglie ed imprese con la fiscalita’ generale per i decenni a venire, resterà nei libri di storia come onta indelebile di vilta’ per quei capi di stato, governi, burocrati e partiti politici che si sono prestati all’indegno scippo dei privati risparmi!

LA RESA DEI CONTI

A questo punto, sempre che si voglia evitare il peggio, si pongono delle scelte obbligate, delle due l’una:

1. o si lasciano fallire le banche insolventi, ristabilendo il sano principio del capitalismo per cui chi sbaglia paga, con risorse proprie;

2. o si nazionalizzano le banche trasformandole da private a pubbliche, ristabilendo l’assistenzialismo con risorse altrui, prelevate in modo palese con la fiscalità generale, o in modo occulto con l’inflazione, svilendo cioe’ il potere di acquisto della moneta con quelle medesime operazioni non convenzionali (c.d. quantitative easing) delle banche centrali. [5]

La via di mezzo, quella del banco-stato corporativo europeo che usa i fondi internazionali (FMI, EFSF, ESM), da finanziare con € 3.000 miliardi di risorse pubbliche che ancora servono per mantenere privati ed in vita i grandi conglomerati finanziari europei ormai decotti, scippandole dai risparmi alle famiglie, dal credito per gli investimenti alle imprese, dal reddito da lavoro e pensioni alle giovani generazioni, non sembra piu’ essere politicamente desiderabile, causa azzardo morale ad essa intrinseco.

UN SISTEMA ECONOMICO INGIUSTO

Certo è che non si potrà continuare ad avere in futuro un sistema economico imperniato su attori del mercato privilegiati, le banche, i cui utili distribuiti nei periodi di vacche grasse restano privati, mentre le perdite sono socializzate nei periodi di vacche magre!

NOTE

1. cfr. La Repubblica, Economia & Finanza, del 2 luglio 2012

2. Secondo un documento del 26 maggio 2009, preparato dalla Commissione europea, dalla Bce e dagli Stati membri, i Governi europei hanno gia’ approvato € 3.611,5 miliardi di sovvenzioni per supportare il sistema bancario. Una cifra superiore ai PIL della Germania e dell’Italia messi insieme. (Cfr. Meera Louis, Bruxelles, 12/06/2009, Bloomberg.com ). Ecco l’elenco dei principali interventi, in miliardi di euro, che comprendono: ricapitalizzazioni delle banche, rilascio di garanzie, acquisto di attivita’ ed interventi di liquidita’ dei governi europei. United Kingdom 781.2 / Denmark 593.9 /Germany 554.2 / Ireland 384.5 / France 350.1 / Belgium 264.5 / Netherlands 246.1 / Austria 165 / Sweden 142 / Spain 130 /

3. In Italia, il Documento di economia e finanza (DEF) del 18 aprile 2012, spiega che i prestiti bilaterali alla Grecia e le garanzie fornite all’EFSF hanno fatto aumentare il debito pubblico italiano di 3,9 miliardi nel 2010 e di 6,2 nel 2011. Le garanzie all’EFSF per sostenere Grecia, Irlanda e Portogallo aumenteranno il debito di altri 29,5 miliardi nel 2012 e di 5,2 miliardi nel 2013. In totale fanno quasi 45 miliardi di euro. La partecipazione dell’Italia al capitale ESM vale circa 5,6 miliardi sia nel 2012 sia nel 2013, più altri 2,8 miliardi nel 2014 (cfr. Reuters Italia, 26-06-2012). Ricapitolando, grazie ai vili accordi internazionali presi dai governi Berlusconi e Monti, il debito pubblico italiano e’ aumentato – e aumentera’ – nel periodo 2010-2014 di 58, 80 miliardi di euro per gli aiuti alle banche europee, come segue:

  • nel 2010 di 3,9 miliardi di euro;
  • nel 2011 di 6,2 miliardi di euro;
  • nel 2012 di 35,1 miliardi di euro;
  • nel 2013 di 10,8 miliardi di euro;
  • nel 2014 di 2,8 miliardi di euro.

4. La partecipazione alla costituzione, ad opera del governo Berlusconi, del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (EFSF) ha comportato per l’Italia un impegno di bilancio pubblico pari al 17.8598% delle risorse complessive deliberate di 440 miliardi di euro, ossia un impegno per le finanze pubbliche pari a circa 79 miliardi di euro, che in successivo intervento sono state incrementate a 139 miliardi di euro circa. Queste immani risorse sono state garantite al Fondo europeo principalmente dalle manovre del governo Monti (circa 164 miliardi di euro di maggiori entrate e minori spese dal 2012 al 2023 del solo decreto c.d. salva-Italia) che hanno inciso su pensioni, aumenti delle accise sui carburanti, iva, bolli, introduzione dell’Imu sulla prima casa, raddoppio della imposta comunale sugli immobili rispetto all’Ici, solo per citare le misure più note.

5. La Banca Centrale Europea (BCE) allenta i requisiti dei titoli che devono essere consegnati dalle banche in garanzia per ottenere prestiti dall’istituto centrale. Adesso sono ammessi anche i titoli tossici provenienti dalla cartolarizzazione dei leasing auto, prestiti al consumo e mutui commerciali. E’ chiaro a tutti ormai che le risorse destinate a sostenere la liquidita’ dei mercati interbancari, o per calmierare l’innalzamento dei tassi di interesse nel mercato secondario del debito pubblico, sono in realta’ sostegni occulti alla redditivita’ ed al valore cartolare delle grandi banche zombi europee. I c.d. firewalls del FMI – o lo scudo anti-spread che propone Monti – hanno le medesime finalita’ che persegue la banca centrale Usa (FED) dopo il fallimento di Lehman Brothers, ossia quelle di sostenere redditivita’ e valore cartolare delle grandi banche universali per evitare che debbano dichiarare pubblicamente il loro fallimento. Ovviamente queste non sono decisioni di politica monetaria bensì di politica economica che implicano l’utilizzo della tassazione, ma in questo caso senza rappresentanza (taxation without representation).

CAMORRISTI E BRIGANTI

I CAMORRISTI

Gli uomini energici si riunivano in bande e opprimevano i deboli: tale e’ l’origine della Camorra. Oggi e’ conosciuta questa frammassoneria plebea, che ramificavasi in tutta la provincia, e che il potere, impotente a sopprimerla, si studio’ sempre di non averla troppo nemica. Tutti coloro che osavano maneggiare un pugnale, erano fieri di appartenervi; subivano due gradi di iniziamento, e poi finivano per esservi arruolati. Aveano capi nei dodici quartieri di Napoli, in tutte le citta’ del regno, in tutti i battaglioni dell’esercito: regnavano ovunque il popolo era riunito, prelevavano una imposta sul denaro che davate al conduttore della vostra carrozza; sopravegliavano ai mercati, e si attribuivano una parte della vendita; vigilavano ai giuochi delle carte fra i popolani, e dal vincitore riceveano un tributo: dominavano perfino nelle prigioni, e la polizia non vi si opponeva: e occorrendo li chiamava in suo aiuto, affinche’ scuoprissero e arrestassero in nome del re gli uomini piu’ pericolosi. Non e’ molto tempo che essi seppero prendere un assassino, di cui eransi perse le tracce; io stesso lo vidi passar per la via coperto di sangue, trascinato alla prigione dai suoi complici!

Talvolta il governo arrestava i camorristi e li inviava in galera. Ma anche da codesto luogo spaventavano gli uomini onesti, gli uomini che vivevano in piena liberta’. Dal fondo di un carcere, con le mani e coi piedi avvinti in catene, ricevevano la visita dei piu’ paurosi , i quali si recavano umilmente e regolarmente a pagare loro il tributo mensile.

Questa societa’ avea luoghi dove riunivasi, una cassa comune, un forte arganamento, leggi inflessibili. I capi si attribuivano spaventevoli diritti sopra gli affiliati: se ad essi veniva imposto un assassinio, erano costretti ad obbedire, sotto pena di morte. Il pugnale colpiva ogni infrazione, troncava ogni disputa. Ogni camorrista ne recava seco due: uno per se’, l’altro per voi se resistevate ai suoi ordini; era un duello terribile; egli colpiva nella cassa, ossia nel cuore.

I VERI BRIGANTI

Di fronte a tali costumi il brigantaggio non puo’ recare sorpresa. In queste contrade vi furono sempre  briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni, sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai giorni nostri; le strade fra Roma e Napoli non furono mai abbastanza sicure. Immaginate dunque cosa dovesse essere la parte interna e meno frequentata di queste provincie: era un ricettacolo di assassini. In talune di esse non fu mai prudente viaggiare anche in uniforme. Paolo Luigi Courrier ha scritto in proposito alcune lettere che sono ormai notissine.

Tutto favoriva il brigantaggio: e la stessa configurazione del paese, coperto di montagne, e le idee del governo, che di quelle montagne non davasi cura, ne’ vi apriva gallerie, ne’ vi tagliava strade: vi hanno distretti intieri per i quali non e’ ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri, che i muli non si arrischiano a percorrere; aggiungasi a questo il sistema di agricoltura della Puglia, la vita nomade de’ pastori che passano le estate sui monti, e vivono in quelle cime senza famiglia, in mezzo al loro gregge, in un isolamento selvaggio. I viandanti sprovvisti di ogni difesa, a torto si avventuravano in que’ deserti.

Coloro che erano costretti a percorrerli, si facevano scortare da’ briganti. Nell’anno precedente, prima della rivoluzione, un viaggiatore volle salire il Matese: prese una guida e si affido’ pienamente in lui. Fece una ascensione penosa in mezzo ad un paese magnifico: a due terzi del cammino, trovo un lago in fondo ad una valle selvaggia: trovo’ arbusti di abeti che cuoprivano gli scogli; dalla cima della montagna, da un lato e dall’altro si godeva la vista de’ due mari. Il viaggiatore e la guida erano soli in mezzo a quella natura cosi’ bizzarra e tale da ispirare inquitudine. Si imbatterono in una croce. –Ve la posi io stesso, disse la guida. –E perche’? –E’ un voto che avete fatto! –Con quale scopo? –Per una disgrazia avvenutami. –E quale? –Ho ucciso un uomo. –Tu? –Si’, o signore, la’. –E mostro’ la croce. Sopra diversi punti della montagna ne avea poste altre ventinove.

Tutti i tribunali dell’Europa insieme riuniti non basterebbero a giudicare i delitti ignorati, commessi su quelle alture. Il governo li lascia impuniti; il che permette ai piu’ audaci di riunirsi in piccole bande, le quali prendevano dimora in qualche folta foresta, e tentavano poi delle spedizioni. Rileggete Gil-Blas, cambiate i nomi de’ paesi, e voi avrete il racconto di queste avventure. I viaggiatori erano sempre piu’ esposti a’ pericoli, ma anche i proprietarii di terre vicine a questi luoghi male avventurati non dormivano tranquilli i loro sonni. Se i contadini loro non vigilavano attentamente in armi, correvano il rischio una bella notte di essere presi e condotti nelle montagne. Allora si imponeva ad essi un riscatto. Il prigioniero scriveva alla famiglia, e i briganti stessi portavano la lettera. La famiglia pagava.

I RISCATTI

Questi fatti avvenivano ogni giorno. Non e’ corso molto tempo che in una provincia fu rapito un uomo; i parenti di lui erano a Napoli: riceverono dai rapitori un messaggio: chiedevano un migliaio di ducati: i parenti ne offrirono la terza parte. Il messaggere torno’ con un orecchio del prigioniero e colla minaccia di tagliar l’altro, se fosse stata necessaria una terza intimazione. Questa storia fu pubblicata dai giornali coi nomi delle persone e dei luoghi. I parenti pagarono tutto; oggi sono nella piu’ squallida miseria.

Simili avventure sarebbero impossibili in qualunque altro paese; qui la paura le incoraggisce. Non si osa denunziare gli emissari; si fa loro buon viso, si stringe ad essi la mano. Basta un uomo per gettare in costernazione una intiera popolazione. Io stesso ne fui testimone con i miei occhi. Era un operaio che aveva ucciso il suo principale; passeggiava tranquillamente a fronte alta nel villaggio. Il sindaco non ebbe il coraggio di farlo arrestare.

Si’; il governo tremava dinnanzi a questa gente Erasi istituita una guardia urbana per proteggere le campagne, ma que’ villici armati spesso erano d’accordo co’ briganti. Quando le bande erano troppo numerose e minacciavano di prendere una bandiera, il governo si risolveva a combatterle. Allora cominciavano le guerre sulle montagne che si combattono tuttora, le imprese contro un nemico che scappava sempre di mano, che si ricoverava nei boschi quando era cercato nei monti, che si nascondeva nelle macchie, dormiva fra i campi di grano, nemico invisibile, imprendibile, che fuggiva sempre piu’ lungi e piu’ alto, fino a che il re, per una trista necessita’, prometteva un’amnistia a quelli che si sarebbero resi. E il re stavolta manteneva la promessa.[1]

FERDINANDO II E TALARICO

Lo stesso Ferdinando II un giorno dove’ trattare con Giosafat Talarico, che lo cimentava e lo batteva da lungo tempo nel fondo della Sila in Calabria. È una foresta che è stata sempre ricovero de’ briganti. Si convenne che Talarico e i suoi avrebbero non solo la vita salva, ma la libertà, e meglio ancora, una pensione dal re: solamente sarebbero stati confinati nella isola più bella e più ricca; in Ischia. Vi sono ancora, e riscuotono la loro pensione.

Tale fu il vero brigandaggio ne’ tempi ordinarii; ne’ ha cessato mai di esistere. Negli ultimi giorni del regno di Ferdinando II erasi organizzato alle frontiere un servizio regolare per il trasporto di cavalli rubati, di tappa in tappa fino agli Stati Romani, dove gli animali erano venduti. Un Borbonico, oggi celebre, aveva parte in questa impresa: non era però Chiavone.

In tempi di crisi politiche il brigandaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni, delle prigioni dischiuse, i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa.

NOTE

1. Non sempre pero’. “I Borboni restaurati presero un altro espediente per distruggere il brigantaggio di cui si erano serviti e che allora si riconobbero impotenti a reprimere. Il generale Amato scese a patteggiare con la banda di Vandarelli  che infestava la Puglia, e le accordo’ non solo il perdono e l’oblio, ma fu stipulato che essa sarebbe trasformata con un ricco soldo in una legione armata al servizio del re, al quale presterebbe giuramento. Stipulate queste convenzioni, la banda venne a Foggia per rendersi, e quivi disarmata per ordine del generale in capo, fu distrutta a colpi di fucile.” – Circolare del barone Ricasoli.

BIBLIOGRAFIA

Tratto da Marco Monnier – Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane –  G. Barbera Editore, II edizione, Firenze, 1862. 

MANTENERE PRIVILEGI GRATUITI ALLE BANCHE E’ ANCORA POLITICAMENTE DESIDERABILE ?

ROMPERE IL MONOPOLIO DELLA FIDUCIA PER SCIOGLIERE LE BRIGLIA ALLO SVILUPPO DEL PAESE

E’ ancora politicamente desiderabile che lo stato supporti i profitti ed il valore cartolare (rectius: quotazione di borsa) delle banche, accordando loro privilegi gratuiti per il predominio nel mercato del credito e della raccolta del risparmio presso il pubblico? [0]

A questa domanda due studiosi dell’ Universita’ “Ca’ Foscari” di Venezia rispondono negativamente. [1]

Nelle conclusioni del loro studio dal titolo “Competizione bancaria e stabilita’ finanziaria: un’esposizione di equilibrio generale“, pongono in evidenza che i risultati teorici a cui sono pervenuti sono empiricamente rilevanti, confermando la correlazione positiva tra competizione bancaria e stabilita’ finanziaria che gia’ era emersa da numerosi studi.[2] [3] [4] [5]

Per la politica economica e finanziaria, i risultati dello studio offrono un’importante punto di vista riguardo alla questione se supportare i profitti delle banche con delle rendite (extra-profitti) – o, in un contesto dinamico, supportare il valore cartolare (quotazioni azionarie) delle banche – sia ancora un’opzione politicamente desiderabile.

Questo perche’ ancora oggi, una parte consistente della letteratura ed il dibattito politico, di fatto sostengono che la preservazione della profittabilita’ della banca, attraverso rendite (extra-profitti) che aumentino tale profittabilita’ – od il loro valore cartolare –  e’ desiderabile, per quanto cio’ possa indurre la banca ad assumere meno rischi.

Questo argomento a favore del sostegno della profittabilita’ della banca tuttavia ignora come queste rendite (extra-profitti) sono generate, o come sono utilizzate una volta che sono state garantite.

I risultati ottenuti dagli studiosi suggeriscono che il supporto alla profittabilita’ della banca (od al suo valore cartolare) con rendite (extra-profitti), che non dipendono da azioni della banca volte al miglioramento dell’efficienza, potrebbero essere ingiustificate. In particolare gli studiosi arguiscono che se le rendite (extra-profitti) maturano indipendentemente dall’impegno delle banche ad adottare “tecnologie” di intermediazione piu’ efficienti, ed in generale, ad offrire migliori servizi di intermediazione, allora le rendite (extra-profitti) sono sotto-ottimali e non garantiscono la stabilita’ del sistema bancario.

Alla luce di queste considerazioni, le pressioni competitive possono rappresentare un effettivo incentivo per le banche ad adottare “tecnologie” di intermediazione piu’ efficienti.

In un ambiente competitivo, le rendite per essere conseguite dovrebbero necessitare di investimenti in “tecnlogie” che forniscono alle banche un vantaggio competitivo nell’offrire i servizi di intermediazione, piuttosto che derivare da predominio di mercato goduto “gratuitamente”.

NOTE

0. Cfr. la norma di cui all’ art. 11, comma 2, D.Lgs. 385/1993 – Testo Unico Bancario T.U.B., per l’anacronostico privilegio di mercato che vieta, ai soggetti diversi dalle banche, la raccolta del risparmio tra il pubblico.

Cfr. anche la norma di cui all’ art. 2483, comma 2, Codice Civile che blocca di fatto l’unica fonte diretta di finanziamento degli investimenti, da parte delle famiglie, alle piccole e medie imprese (PMI). In particolare, i titoli di debito delle piccole e medie imprese “possono essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale“. Tale norma crea di fatto un monopolio della fiducia a vantaggio del sistema bancario impedendo la dis-intermediazione del credito, quindi la nascita di mercati primari e secondari per tali titoli, ed in ultima analisi impedisce lo sviluppo del paese. Cosi’ l’ingannevole relazione al decreto legislativo di riforma al diritto societario: ” Importante è infine la disciplina, dettata in attuazione della lettera g), secondo comma, art. 3 della legge di delega (disciplinare condizioni e limiti per l’emissione e il collocamento di titoli di debito presso operatori qualificati, prevedendo il divieto di appello diretto al pubblico risparmio, restando esclusa in ogni caso la sollecitazione all’investimento in quote di capitale), in merito alla emissione di titoli di debito da parte di società a responsabilità limitata. In proposito si è ricercato un equilibrio (evidentemente senza trovarlo) tra l’esigenza di rendere praticabile ed utile per le società a responsabilità limitata l’accesso a queste forme di finanziamento e quella di assicurare la necessaria salvaguardia degli interessi dei risparmiatori. La soluzione elaborata al riguardo dall’art. 2483, sulla base delle indicazioni della legge di delega, è stata quella di consentire la sottoscrizione di tali titoli di debito esclusivamente ad investitori particolarmente qualificati ed in grado quindi di valutare effettivamente il merito del rischio; e di imporre, nel caso in cui i titoli vengono successivamente trasferiti, come può risultare economicamente necessario al fine di procacciarsi la provvista, a carico dei sottoscrittori stessi una garanzia ex lege per la solvenza della società sostanzialmente coincidente con quella prevista in materia di cessione del credito.”

Cfr. anche le operazioni della Bce denominate L.T.R.O. – Longer-Term Refinancing Operation con cui la banca centrale europea ha elargito alle banche circa 1 miliardi di euro, per tre anni, al tasso dell’1%. E’ noto che le banche con queste risorse monetarie hanno acquistato titoli di stato, a tassi ben superiori all’1%. Esse, grazie al loro status corporativo capitanato dalla banca centrale, hanno adottato rudimentali “tecnologie” di intermediazione garantendosi cosi’ gli extra-profitti a spese delle comunita’ dei lavoratori, che sono chiamate a pagare gli interessi sul debito pubblico con la fiscalita’ generale.

Per maggiori dettagli cfr. anche il video di Victoria Grant, sulla frode del sistema bancario.

1. Bank Competition and Financial Stability: A General Equilibrium Exposition, Gianni De Nicolò e Marcella Lucchetta, IMF Working Paper WP/11/295

2. Jayaratne and Strahan (1998) hanno trovato che alla deregolamentazione delle filiali corrisponde un deciso decremento delle perdite sui mutui.

3. Barth, Caprio and Levine (2004), Beck (2006a and 2006b), and Schaeck et al. (2009). Le barriere all’entrata nel mercato bancario ed all’attivita’ bancaria sono associate negativamente a certe misure di stabilita’ della banca.

4. Cetorelli and Gambera (2001) and Cetorelli and Strahan (2006). Le banche che dominano il mercato erigono importanti barriere finanziarie all’entrata per scoraggiare l’imprenditorialita’ nel settore del credito, conducendo al declino, nel lungo termine, le prospettive di crescita di un paese.

5. Lastly, Corbae and D’Erasmo (2011) hanno presentato uno studio quantitativo dettagliato dell’industria bancaria statunitense basato su una versione dinamica calibrata del modello di Boyd e De Nicolo’ (2005), riscontrando l’evidenza di un’associazione positiva tra competizione e stabilita’ finanziaria.

STATO CORPORATIVO E CORPORATIVISMO

LA NATIONAL RECOVERY ADMINISTRATION (N.R.A.)

Negli U.s.a., il tentativo di introdurre lo Stato corporativo viene fatto risalire al National Industrial Recovery Act (N.I.R.A.) ed alla National Recovery Administration (N.R.A.), che aveva il compito di sovraintendere alla stesura delle norme di concorrenza leale. L’N.R.A. aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia, sebbene senza la brutalità e i metodi di stato di polizia (squadrismo) di quest’ultimo. L’N.R.A era sostanzialmente un sistema di pianificazione economica privata (autogoverno industriale), con supervisione governativa.[1]

Il 27 maggio 1935 l’N.R.A. fu dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Sostanzialmente, la stesura del codice sulle “norme di concorrenza leale” da parte della N.R.A. rappresentava una delega incostituzionale del potere legislativo in violazione della Commerce Clause[2].

IL DECRETO DEI PIENI POTERI

In Germania, lo stato corporativo e’ stato introdotto con l’emanazione del c.d. decreto dei pieni poteri, che permise al Cancellire Adolf Hitler ed al suo gabinetto di promulgare leggi senza l’approvazione del Parlamento tedesco (Reichstag), concentrando di fatto nelle sue mani il potere legislativo e quello esecutivo.

IL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE CORPORAZIONI

In Italia, l’occasione per introdurre il corporativismo fu la “Carta del Lavoro”. Il testo fu approvato dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927 e nonostante non avesse valore di legge o di decreto, non essendo allora il Gran Consiglio organo di Stato ma di partito, esso fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927.

Nello storico suo discorso del 14 novembre 1933 al Consiglio Nazionale delle Corporazioni[3], Benito Mussolini dichiarò: “il corporativismo è l’economia disciplinata, e quindi anche controllata, perché non si può pensare a una disciplina che non abbia un controllo. Il corporativismo supera il socialismo e supera il liberismo; crea una nuova sintesi.”

Erra chi crede che “Stato corporativo” significhi soltanto Stato fondato sulle “Corporazioni”. “Stato corporativo” e “Stato fascista” sono termini equivalenti, poiché, come disse Benito Mussolini: “lo Stato fascista è corporativo, o non è fascista.

Non si deve credere quindi che il corporativismo sia soltanto l’insieme delle istituzioni che hanno il fine di regolare i rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori. Questa è solo una parte del corporativismo. Il corporativismo non regola solamente la questione sociale, ma è un nuovo sistema di organizzazione, di vita e di attività della collettività nazionale e dello Stato nel campo economico e politico. Il corporativismo è un nuovo ordinamento dello Stato in cui tutte le forze politiche e tutti gli organi vengono fatti convergere verso il maggiore potenziamento e verso il massimo benessere della collettività, sulla base di un’unica sovranità: quella dello Stato (non del Popolo). È una nuova organizzazione della nazione in cui le attività degli individui e dei gruppi sociali sono sempre subordinati ai superiori fini nazionali.

In altri termini, lo Stato è corporativo (e quindi fascista) non solamente in campo economico, ma pure nel campo costituzionale, amministrativo e politico. Il concetto di “Stato corporativo” non è unicamente un concetto politico ma è altresì ed essenzialmente un CONCETTO GIURIDICO che riguarda la struttura dello Stato medesimo.

lo Stato corporativo o Stato fascista si chiama così non perché sia fondato soltanto sulle corporazioni (o sui fasci), ma perché è uno Stato nel quale l’organizzazione, la vita e l’attività economica, sociale e politica sono fondate sul corporativismo.[4]

Esempio nostrano, recentissimo, di pseudo-diritto corporativo è il decreto del ministro dell’Economia e Finanze, Mario Monti, per l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali, che il Consiglio di Stato ha bocciato proprio perche’ “non e’ demandato al Ministero – scrivono i giudici di Palazzo Spada – di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu per gli immobili degli enti non commerciali.” Infatti tale competenza è del Parlamento, cioè l’organo legislativo previsto dalla Costituzione italiana.

Altro esempio di pseudo-diritto corporativo nostrano è la “legge” elettorale c.d. porcellum. La Corte costituzionale italiana, con la nota sentenza 1/2014, ha dichiarato illegittima detta legge elettorale, tra le altre motivazioni, proprio perché non consente l’elezione diretta dei rappresentanti del Popolo nell’organo legislativo (Parlamento). Purtroppo la stessa sentenza (redattore di ultima istanza: Tesauro) si rivela contraddittoria laddove dice: “la decisione che si assume produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere. Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle ELEZIONI svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento ELETTO. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali. Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato [5], che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento.

In pratica, la Corte dice che la Repubblica si è trasformata in Stato corporativo con il porcellum, in cui i partiti sono divenuti corporazioni, ma per il principio di continuità dello Stato (corporativo), e cioè della continuità degli uomini, il novello fascismo può tranquillamente continuare ad operare, come se nulla fosse, attraverso il suo falsus procurator costituzionale, nominato e non eletto, in una sorta di “fascismo senza Mussolini”, che per di più si è pure premurato di ri-eleggere il vecchio Presidente, anziché eleggere il nuovo!

L’UNIONE EUROPEA E L’USO DISTORTO DELLA DOTTRINA DEI POTERI IMPLICITI

In Europa, lo stato corporativo (o fascista) viene giuridicamente introdotto dal trattato di Lisbona, precisamente con l’art. 352 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che recita:

Articolo 352 (ex articolo 308 del TCE)
1. Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo.
2. La Commissione, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà di cui all’articolo 5, paragrafo 3 del trattato sull’Unione europea, richiama l’attenzione dei parlamenti nazionali sulle proposte fondate sul presente articolo.
3. Le misure fondate sul presente articolo non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono.
4. Il presente articolo non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune e qualsiasi atto adottato a norma del presente articolo rispetta i limiti previsti nell’articolo 40, secondo comma, del trattato sull’Unione europea
.”

Tale articolato ripropone con uso distorto in chiave internazionalistica la dottrina sui poteri implici dello Stato federale.

L’art. 352-TFUE istituisce non solo una competenza legislativa per l’Unione europea, ma allenta anche il (sacrosanto) principio dell’attribuzione specifica limitata. Infatti, secondo il paragrafo 1, un atto legislativo dell’Unione nel quadro delle politiche definite dai trattati deve essere possibile anche in mancanza di una competenza concreta, se l’atto legislativo dell’Unione europea è necessario per realizzare uno degli obiettivi dei trattati (art. 352, paragrafo 1, TFUE).

Nel diritto previgente, l’art. 308-TCE (ex art. 235-CEE) appariva come una “competenza di arrotondamento dei trattati” che consentiva un “perfezionamento immanente dei trattati” nel diritto dell’Unione “al di sotto della soglia della modifica formale dei trattati“.

Come noto, l’Unione europea è qualificata come Unione pattizia tra Stati che restano sovrani, è dotata di personalità giuridica ma è priva di sovranità originaria in quanto non esiste un “popolo europeo” ma un’unione di popoli. L’Unione esercita quindi poteri pubblici che le sono stati concessi, in condizioni di parità e reversibilità, dai c.d. “Signori dei trattati” (gli Stati nazionali) i quali hanno accettato con la ratifica del trattato internazionale (in Italia ad opera del Parlamento in altri Stati con referendum), di limitare le proprie competenze in favore dell’Unione, allo scopo di promuovere i commerci e mantenere la pace.

Tuttavia, le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona all’art. 308-TCE (oggi art. 352-TFUE) hanno imposto alla Corte costituzionale tedesca una nuova valutazione della disposizione.

L’art. 352 TFUE difatti non è più limitato alla realizzazione degli obiettivi nell’ambito del mercato comune, riferendosi piuttosto al “quadro delle politiche definite dai trattati” (art. 352, paragrafo 1, TFUE), ad eccezione della politica estera e di sicurezza comune (art. 352, paragrafo 4, TFUE).

Tale disposizione serve quasi, nell’intero ambito di applicazione delle fonti primarie, a creare una competenza (auto-legittimazione) che consente un’azione legislativa a livello europeo. Questa estensione dell’ambito di applicazione, rispetto all’ex art. 308-TCE, seppure compensata in parte da dispositivi di garanzia con norme procedurali, non contempla una preventiva approvazione da parte degli Stati membri in armonia con le rispettive norme costituzionali e tale preventiva approvazione non rientra nemmeno tra i presupposti per l’entrata in vigore di un eventuale atto legislativo adottato con riferimento all’art. 352-TFEU.

La Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht), con la nota sentenza del 30 giugno 2009 (par. 325-328) sul trattato di Lisbona, ha dichiarato l’art. 352-TFUE di dubbia costituzionalità in quanto esso rappresenta una “delega in bianco” (di autorità o poteri pubblici) o una “cessione di competenza sulla competenza” (cessione di sovranità) vietata dalle norme costituzionali. La sovranità popolare è infatti definita come originaria, assoluta, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile sicché il principio di diritto pubblico riassunto nel brocardo latino delegata potestas non potest delegari vieta la delega di sovranità (in latino potestas).

In pratica, la disciplina novellata dell’art. 352-TFUE in senso corporativo (o fascista) rende possibili modifiche sostanziali delle basi pattizie dell’Unione europea senza che vi partecipino in modo costitutivo, oltre ai poteri esecutivi degli Stati membri, anche organi legislativi.

I parassiti del principio di legalità, ed architetti dello pseudo-diritto corporativo, si annidano quindi nei regolamenti ed atti comunitari, nelle sentenze della Corte di Giustizia europea e negli atti emanati dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea, dal Consiglio europeo ed in generale nelle tecnocrazie sovranazionali che si arrogano poteri legislativi autoreferenziali.

Spesso gli organi di disinformazione e propaganda corporativa europea, parlano di “cessione della sovranità” o di “sovranità perduta” anziché di “concessione di autorità o poteri pubblici o competenze” confondendo ciò che attiene alla sovranità (potestas) – cioè alla legittimazione del potere (legislativo, amministrativo e giudiziario) che si realizza principalmente con l’esercizio del voto e che appartiene al Popolo – con l’esercizio (legittimo) di un’ autorità o potere pubblico o competenza (auctoritas) che compete invece allo Stato e si realizza attraverso le istituzioni (legislative, amministrative e giudiziarie) con le limitazioni previste dalla Costituzione (principio di legalità).

L’ideologia fascista difatti nega il principio della sovranità del popolo (potestas in populo, auctoritas in senato scriveva Cicerone, De Legibus 3, 28) ed afferma in vece il dogma della sovranità dello stato.

Uno tra i più autorevoli sociologi italiani non si è fatto remora di scrivere, non a torto, il libro intitolato: “Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa“, definendo come “autoritarismo emergenziale” l’usurpazione del potere esecutivo, regolamentare e di iniziativa legislativa in politica economica (e non solo monetaria) da parte delle banche centrali, fondato sulla disinformazione, sull’inganno, sulla menzogna circa le reali cause della crisi economica allo scopo, fin troppo evidente, di salvare se stesse ed il sistema autoreferente delle grandi banche universali sul modello tedesco.

LE AUTORITA’ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI

Una riproposizione, in chiave post-moderna, del concetto giuridico del corporativismo in economia è rappresentato oggi in Italia dalle c.d autorità amministrative indipendenti, prima fra tutte, dalla Banca D’Italia. Anche queste autorità pubbliche tentano di auto-legittimarsi nell’esercizio del potere regolamentare sulla base di un uso distorto della dottrina dei poteri implici dello stato federale.

Già la denominazione è tutto un programma: autorità amministrative indipendenti. Verrebbe da chiedersi: “indipendenti da chi o da che cosa?”

L’idea scellerata è quella di replicare nei diversi settori economici (es. credito e risparmio, energia, telecomunicazioni, trasporti, lavori pubblici, mercati, assicurazioni, ecc.), ma non solo (si pensi al diritto alla riservatezza o al diritto di sciopero, alla concorrenza, alla corruzione), la tendenza espansiva dei poteri in atto per la corporazione del credito e della raccolta del risparmio, cioè della banca centrale.

L’obiettivo sarebbe quello di consolidare in capo a queste nuove corporazioni un potere regolamentare erga omnes (un autogoverno del settore economico o dei diritti e delle tutele) ovviamente giustificato e condito con la solita retorica propagandistica in ordine o alla “tutela del risparmio” o al “buon funzionamento del mercato” o alla “tutela del consumatore” o alla “tutela della concorrenza” o alla “tutela e salvaguardia dei beni pubblici”.

In realtà non si fà altro che riproporre la ricetta del corporativismo (o fascismo) e cioè l’auto-legittimazione del potere legislativo in capo a nominati (e non eletti) allo scopo di auto-tutelarsi ed agevolare gli interessi corporativi del settore a spese della collettività.

Secondo alcuni ciò non dovrebbe essere possibile [6] in quanto la Corte costituzionale (sentenza 300/2003) ha rigettato una lettura estensiva del potere di vigilanza di un’autorità pubblica, sino a ricomprendere il potere regolamentare.

BCE, COMMISSIONE EUROPEA E CONSIGLIO EUROPEO

La questione del corporativismo giuridico nelle istituzioni europee, Banca Centrale Europea, Commissione europea e Consiglio europeo, è ben riassunto (nei suoi effetti concreti e tangibili in spregio della sovranità popolare) nel testo della interpellanza n. 09.3256 del 20 marzo 2009, al Consiglio federale svizzero e relativa risposta del 3 marzo 2010. [7] [8]

Alcuni giuristi hanno descritto molto chiaramente il meccanismo con cui le térmiti ed i tarli del pseudo-diritto corporativo travestito da diritto sovranazionale od internazionale infestano le costituzioni liberali e democratiche degli Stati sovrani. [9] [10]

BUROCRAZIA, TECNOCRAZIA, CORPORATIVISMO E TOTALITARISMO

La premessa della tecnocrazia è la trasformazione del Popolo in massa. La conseguenza della tecnocrazia è il totalitarismo, cioè l’assorbimento totale e finale della società da parte di uno Stato. Elemento essenziale di questa trasformazione è l’autoreferenza dello Stato, che non trova più legittimazione nel Popolo ma in se stesso e quindi nella élite dominante. [11]

AUCTORITAS (IMPERIUM) ET POTESTAS

Il concetto di Sovranità (potestas) che sembrava fissato in forma definitiva dalla Rivoluzione francese del 1789, con l’avvento degli organismi sovranazionali, ed in particolare dell’Unione europea (UE), viene fatto nuovamente oggetto di una totale revisione nonostante le recenti esperienze nefaste dei fascismi e totalitarismi del XX secolo.

Il concetto di Sovranità non è presente nel pensiero greco. Alla domanda a chi appartiene il potere nella Grecia antica viene risposto che il potere appartiene naturalmente a chi è più idoneo. Per Trasimaco il più idoneo è il più forte, per Socrate il più idoneo è il più sapiente.[12] Aristotele trasse la conclusione e giunse ad affermare che il potere secondo natura appartiene alle leggi fondate sulla ragione e che i magistrati hanno soltanto la facoltà di adeguarle alla varietà del reale. L’identità tra governanti e sapienti deveva portare al governo dei filosofi.

I Romani erano troppo realisti per un governo dei filosofi e troppo dinamici per proclamare il dominio statico delle leggi secondo natura, sicché introdussero il concetto della collettività. Si giunse così alla definizione di Cicerone per cui la Sovranità spetta al popolo mentre l’autorità al senato.[13] Lo stesso Ottaviano Augusto col principato, dopo la restaurazione della legalità, afferma di non aver mai prevalso per potestas, ma di essere stato superiore a tutti in auctoritas.[14]

L’impero romano tramandò per secoli con la Lex regia il principio giuridico esposto da Cicerone, anche se già all’inizio del III secolo, al tempo di Ulpiano[14bis], non aveva più alcun riscontro reale, ma solo un valore ideologico-legittimante senza efficacia pratica. Era un espediente utile per rafforzare l’autocrazia dell’imperatore.

Nel medioevo dopo la caduta dell’impero romano, nella grande rissa che si scatenò in Europa, tutti pretesero di possedere ed esercitare legalmente l’autorità. Nel V secolo, Papa Gelasio I ridefinì il dualismo nel medioevo cristiano ponendo l’auctoritas in capo al pontefice e la potestas in capo all’imperatore.[15]

Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano afferma con la costituzione Deo auctore di avere ricevuto (derivazione diretta) il potere imperiale da Dio.[15bis]

Nel 1075, Papa Gregorio VII negava con il Dictatus papae il primato del regnante sul pontefice e si iniziava così fra le due autorità la lotta per ottenere la plenitudo potestatis ossia la supremitas.

Se la Chiesa vantava la propria supremitas sullo Stato [16], all’autorità dell’impero si sottraevano i re proclamandosi imperator in regno suo, mentre i signori feudali si facevano re nei propri castelli.

Nel XII secolo Federico Barbarossa preferì, per le proprie tendenze autocratiche, non utilizzare il precetto della Rex regia, ritenendo per la legittimazione del suo regno che il diritto divino, quello ereditario ed il consenso dei principi tedeschi fossero sufficienti a sostenere l’origine e la trasmissione del potere imperiale. Nella mentalità del Barbarossa la legittimazione del potere discendente direttamente da Dio escluse la possibilità dell’investitura (mediazione) popolare.[17]

Nel XIII secolo, Federico II (stupor mundis) muta radicalmente la situazione ed il richiamo esplicito alla Rex regia era posto in funzione dell’assolutismo contro le pretese della curia romana. L’intento era quello di porre radicalmente – nel senso che secondo Federico II la cessione della potestats da parte del popolo romano all’imperatore è definitiva ed irreversibile – l’autorità imperiale quale unica fonte di legittimazione dell’ordinamento giuridico.[17bis] Azzone nega che la potestas sia stata trasferita al principe in via definitiva.[18]

I sostenitori del papa videro inizialmente nella origine umana della legittimazione imperiale una prova dell’inferiorità dell’autorità imperiale rispetto a quella della Chiesa.[18bis] Ma ben presto i canonisti si accorsero che l’inferiorità si trasformava in indipendenza e si giunse ad accentrare nella Chiesa ogni potere di investitura.[19], [20], [21]

Il processo di accentramento del potere nella Chiesa giunse alla sua massima espressione ed al contempo alla sua definitiva sconfitta con Bonifacio VIII. “Io sono Cesare, Io imperatore” egli affermava.

Marsilio da Padova giunse alla prima teorizzazione dello Stato moderno elaborando il concetto della sovranità del popolo.

Nel XIV e XV secolo, il principio della Sovranità del popolo contenuto nella Lex regia divenne quindi per i sostenitori dell’impero il fondamento a favore dell’autonomia originaria dello Stato rispetto alla Chiesa.[22] Il polemista germanico Ludovico il Bavaro dichiarava nel 1338: Declaramus quod dignitas et potestas est immediate a Deo solo. Mentre i legisti italiani difendevano nell’imperatore l’ultimo residuo della tradizione romana e del suo diritto come potenza della ratio, i polemisti germanici volevano salvare l’imperatore piuttosto che il diritto naturale che esso rappresentava.

Nella pratica, col sistema dei principi elettori dell’imperatore, l’azione politica germanica giunse a sottrarre al popolo romano anche l’esercizio formale della potestas. I ghibellini germanici tuttavia non riuscirono ad opporre alla teocrazia papale una teocrazia imperiale e laica.

Nella contesa per ottenere la supremitas si vennero a definire anche i caratteri della Sovranità. Prima che Lorenzo Valla dimostrasse il falso storico della “donazione di Costantino”, i ghibellini con Dante Alighieri, nello sforzo di dimostrarne l’illegittimità della donazione, erano riusciti a sancire il carattere inalienabile della Sovranità.[23]

Nel XVII secolo l’assolutismo proclamò la Sovranità del capo dello Stato veramente suprema, ossia sciolta dalle leggi. L’ideologismo monarchico con Giacomo I d’Inghilterra proclamava: “Un vero re può conformarsi alla legge, ma nulla ve lo obbliga.”

Nel XVIII secolo Jean-Jacques Rousseau ritrasferì nel popolo la Sovranità che i re attribuivano a se stessi. Questa sovranità del popolo fu dichiarata una, inalienabile, imprescrittibile.

CONCLUSIONI

Oggi, come allora, l’essenza (giuridica) dello Stato corporativo (o fascista) consiste nel porre il potere legislativo al di fuori della portata dei rappresentanti del Popolo legittimamente eletti (e non nominati) a suffragio universale, per consegnarlo nelle mani di elitès minoritarie, nominate e non elette.

Il totem del corporativismo (o fascismo) europeo da idolatrare è l’euro, promosso (guarda caso) dal governo Prodi.

L’ideale di giustizia non può che essere l’utile del più forte, cioè l’utile dello Stato corporativo medesimo (Panunzio scriveva: lo Stato fascista è lo Stato forte).

Le corporazioni principali dello Stato fascista post-moderno – funzionali all’accentramento di ogni interesse e che siano in grado sorvegliare e controllare all’occorrenza ogni aspetto della vita degli individui, con privilegi tali da poter soggiogare i forti ed umiliare i deboli, come nei regimi totalitari – sono le banche centrali e le grandi banche universali. L’economia pianificata a proprio vantaggio garantisce loro prosperità indipendentemente dal ciclo economico.

Questo leviatano post-moderno (da cui tutto dipende e dove tutto finisce) che muove alla conquista degli Stati nazionali è stato partorito in Italia dal testo unico bancario (TUB) – promosso nel 1993 (guarda caso) dal governo Amato è entrato in vigore dal 1994 – ha la testa di banca centrale, le braccia e le gambe delle grandi banche universali.

Di fatto, le banche centrali attraverso l’allentamento quantitativo (c.d. QE quantitative easing), cioè mediante “operazioni di mercato aperto” con offerta illimitata di moneta, hanno usurpato le decisioni di politica economica che spettano ai Parlamenti nazionali. Attraverso queste “operazioni c.d. non convenzionali”, propinate dalla propaganda corporativa come decisioni di politica monetaria, in realtà la banca centrale provvede alla redistribuzione del reddito, a drenare cioè risorse dalle famiglie ed imprese verso il sistema bancario. Ciò si realizza attraverso il pagamento degli interessi sul debito pubblico, se non addirittura con salvataggi diretti delle banche posti a carico del debito pubblico stesso, come avvenuto negli Usa o nel Regno Unito. Questo sistema fascista scellerato di preservazione del potere, fondato sull’inganno ed utilizzato sin dal 2008 allo scopo di socializzare le perdite del sistema bancario deflagrato in seguito alla crisi dei mutui subprime, è stato messo in atto proprio per impedirne il fallimento e mantenerne intatta l’abnorme (e poco controllata) commistione di interessi economici e di potere politico tra grandi banche e governi. In breve il meccanismo della truffa è il seguente: le entrate fiscali degli Stati nazionali che derivano dalla riscossione delle imposte a carico di famiglie ed imprese sono messe al servizio del pagamento degli interessi sul debito pubblico; gli interessi sul debito pubblico sono in massima parte lucrati dal sistema bancario, senza che questo assuma alcun rischio; il sistema bancario acquista i titoli di stato con la moneta creata dal nulla dalla banca centrale, che viene messa disposizione delle banche senza condizioni di impiego, pressoché illimitatamente e gratuitamente. Questo meccanismo ovviamente non contempla l’esercizio del credito.

Il corporativismo cresce nutrendosi del lavoro altrui.

Lavoratori di tutto il mondo unitevi!

NOTE

1. Rondo Cameron – Larry Neal, Storia economica del mondo, II volume, Ed. Il Mulino, Bologna, 2002 ;

2. U.S. Constitution – Commerce Clause ;

3. Discorso di Benito Mussolini al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, 14 novembre 1933 ;

4.  Pietro Fedele, Grande Dizionario Enciclopedico – UTET

5. Francesca Pelini, Problematiche della continuità dello stato, Pisa, 2000

6. Poteri impliciti di Giuseppe Morbidelli. Notare l’uso del vocabolo “auctoritas” (autorità o potere pubblico o competenza) e non “potestas” (sovranità).

7. Parlamento svizzero, Interpellanza 09.3256 ;  Testo Depositato: A causa della competenza del Consiglio federale di concludere trattati internazionali, sempre più frequentemente i diritti democratici del nostro Paese vengono scardinati. Spesso né il Parlamento né il popolo possono pronunciarsi a titolo preliminare su simili trattati. E tutto ciò nonostante il fatto che i trattati internazionali riducano notevolmente la capacità d’agire della Svizzera e impediscano l’applicazione del diritto interno. La conclusione di trattati internazionali indenunciabili incide profondamente e pericolosamente sui diritti del popolo svizzero, poiché determina in modo irreversibile il futuro del nostro Paese, il più delle volte senza alcuna legittimazione democratica. Chiedo al Consiglio federale di rispondere alle domande seguenti: 1. Il Consiglio federale riconosce che la conclusione di trattati internazionali solleva problemi a livello democratico? 2. Come intende il Consiglio federale rafforzare i diritti del Parlamento e del popolo svizzero in questioni internazionali? 3. Sono già stati conclusi trattati internazionali indenunciabili? Se sì, quali? 4. Questi trattati sono davvero indenunciabili o esistono in ogni caso condizioni che consentono di disdirli?

8. L’iniziativa popolare “Per il rafforzamento dei diritti popolari in politica estera (accordi internazionali: decida il popolo!)”, depositata l’11 agosto 2009.

9. Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria di Salvatore Giacchetti.

10. Le térmiti comunitarie
ed i tarli dei trattati internazionali
di Giovanni Virga.

11. Goytisolo, apologeta del diritto naturale di Massimo Introvigne, 3 settembre 2011.

12. Confutazione di Trasimaco nelle Leggi di Platone.

13. Cum potestas in populo auctoritas in senatu sit – Cicerone, De Legibus 3, 28.

14. Auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui – Ottaviano Augusto, Res Gestae.

14bis. Quod principis placuit, legis habet vigorem – Ulpiano, D. 1, 4, 1 pr.

15. Duo quippe sunt quibus regitur mundus, auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas – Gelasio I.

15bis. Deo auctore nostrum gubernantes imperium, quod nobis a caelesti maiestate traditum est – C. 1, 17, 1.

16. Iure regnum sacerdotio subiacebit, Onorio di Autun.

17. Considerazioni sulla ‘lex regia de imperio’ (secoli XI-XIII) – Berardo Pio, 2011.

[17bis]. De origine iuris (Melfi 1231). Nella costituzione l’imperatore ricorda il trasferimento del diritto di legiferare e del comando supremo (imperium) operato – una volta per tutte, s’intende – dai Quiriti in favore del principe mediante la Lex regia ed individua la ragione di tale translatio nella necessità di riunire nella stessa persona l’origine e la difesa della legge, in modo che alla giustizia non manchi la forza e alla forza non venga meno la guida della giustizia. (v. nota 17).

18. Dicitur enim traslata, id est concessa, non quod populus omnino a se abdicaverit eam – Azzone, Summa Codicis I, 14, 8.

18bis. L’imperatore legifera non come scelto da Dio ma come quello cui popolo hoc permissum estInrnerii Summa Codicis, I, 14, 3.

19. Potestas ab umana mente immediate provenit, licet Deo tamquam a causa remota – Marsilio da Padova.

20. Certum est reges potestatem suam accipere ab ecclesia – Tommaso Cantuariense.

21. Ecclesia romana, cuius est regna transferre et reges de sua sede deponere – El Alvario Pelagio.

22. Quis dedit populo romano potestatem eligendi imperatorem, nisi ipsum ius divinum et naturale? – Nicolò Cusano.

23. Constantinus alienare non poterat imperii dignitatem… si ergo alique dignitates per Constantinum essent alienate, scissa esset tunica inconsultis – Dante, De Monarchia, III